La Corte di Cassazione, nella Sentenza 9 settembre 2008 n. 22858, afferma che il mobbing, integrato da una condotta che si protrae nel tempo, diretta a ledere il lavoratore, rappresenta una violazione dell’art. 2087, Cod. Civ., che pone l’obbligo per il datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti.
La Suprema Corte, sul tema, soggiunge che la classificazione come mobbing dei fatti denunciati dal lavoratore, costituendo specificazione di un precetto normativo, appartiene alla funzione del giudice di legittimità, mentre compito riservato al giudice di merito è l’accertamento del fatto.
Ecco la sentenza in argomento:
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAVORO, 9 settembre 2008, n. 22858
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Torino F. E. (che aveva precedentemente esperito in via d’urgenza due ricorsi: per chiedere il ripristino di pregresse mansioni e per impugnare un trasferimento), chiese la condanna della C. S.p.a., di cui era dipendente, al pagamento della somma di L. 831.765.996 a titolo di risarcimento dei danni da lei subiti (danno biologico, danno morale, danno patrimoniale, danno esistenziale) per il comportamento del datore di lavoro, nella persona del direttore della sede di lavoro dott. G. P., qualificabile anche come mobbing e costituito da avances sessuali, minacce, ingiurie, sottrazione di responsabilità lavorative, boicottaggio in progetti, demansionamento, illegittimo trasferimento; chiese anche che si accertasse che la sua malattia (causa d’una lunga assenza dal lavoro), determinata del comportamento aziendale, non era idonea a costituire periodo di comporto.
Il Tribunale respinse la domanda della F. e quella della Società (diretta al risarcimento di danni per lite temeraria). Con sentenza del 29 novembre 2004 la Corte d’Appello di Torino respinse l’impugnazione proposta dalla F. e l’incidentale impugnazione proposta dalla Società.
Premette il giudicante che i danni richiesti dalla ricorrente sono causalmente connessi al preteso mobbing aziendale; che i fatti successivi al ricorso di primo grado (l’essersi la F. trovata al rientro dalla malattia senza nulla da fare) restano estranei alla controversia; e che le pretese molestie sessuali, che non avevano avuto riscontro nell’istruttoria di primo grado, non sono state poste a fondamento dell’appello.
Nel merito, il giudicante ritiene che i fatti, dedotti dalla ricorrente e criticamente esaminati in sentenza nel loro effettivo svolgersi, non sussistono.
Nel corso del rapporto la F. si trovò effettivamente a non avere un proprio ufficio nè un armadio: ciò fu tuttavia determinato da fatti contingenti (lo spostamento degli uffici in altra zona della città), che, egualmente coinvolgendo altri dipendenti, non costituì per la ricorrente depauperamento della propria immagine professionale.
In ordine al progetto …omissis…”, specificamente assegnato alla F., la mancata assegnazione di adeguate risorse era stata probabilmente determinata (come emerso in istruttoria) dal fatto che l’azienda non lo ritenesse strategico; e la successiva assegnazione del progetto a …omissis…, da un canto atteneva alla realizzazione (fase successiva alla progettazione, di cui la ricorrente si era occupata), e d’altro canto rientrava nella strategia aziendale di spostare i dipendenti su compiti man mano diversi.
Al fondo, il giudicante ritiene illuminante la testimonianza di L. (pregresso manager, particolarmente attendibile anche in quanto escusso quando non era più dipendente della Società).
Attraverso le dichiarazioni del teste il giudicante deduce che il G. aveva avuto con la F. un comportamento connaturale al suo carattere, e se ne era scusato; e che non solo non aveva fatto nulla per danneggiare la dipendente, bensì aveva manifestato la propria stima nei suoi confronti. Deduce inoltre che la Società “fece di tutto per trovare all’appellante adeguata collocazione aziendale”.
Per la cassazione di questa sentenza F. E. propone ricorso articolato in 5 motivi; la C. S.p.a. resiste con controricorso, coltivato con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5 violazione degli artt. 2103 e 2110 cod. civ. nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che:
1a. erroneamente ritenendo che fosse stata effettuata solo ai fini dell’individuazione del mobbing, il giudicante non si è pronunciato sulla domanda di reintegrazione nella sede e nelle mansioni svolte (formulata con il ricorso di urgenza, con il ricorso di primo grado ed in appello); egualmente, per quanto attiene alla domanda relativa all’esclusione del periodo di malattia dal termine di comporto;
1b. ciò costituiva violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, e determinava omessa pronuncia su domanda della ricorrente.
2. Con il secondo motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 violazione e falsa applicazione “di norme di diritto in punto di mobbing” nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che:
2a. “nell’accertare la violazione di diritto, la Corte di Cassazione deve applicare d’ufficio il diritto vigente, e se questo si è modificato, deve applicare lo jus superveniens ovvero tener conto delle decisioni della Corte costituzionale”;
2b. la nozione di mobbing ha avuto un’evoluzione nel pensiero giurisprudenziale (della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione), di cui il giudicante non ha tenuto conto;
2c. “anche atti di per sè leciti o comunque insindacabili dal giudice, se inseriti in un contesto più ampio, caratterizzato da quella complessiva condotta avente come effetto la persecuzione e l’emarginazione del lavoratore, costituiscono mobbing, e, considerati nella loro riconduzione a sistema, sono fonte di responsabilità civile”. 3. Con il terzo motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., n. 5 omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla fattispecie mobbing, la ricorrente sostiene che:
3a. il giudicante non aveva tenuto integralmente conto della testimonianza del Ga.; questi aveva dichiarato che era stato il G. a dirgli di collocare, a seguito del trasferimento, la F. nello spazio hoteling; quivi la F., a differenza degli altri dipendenti che lavoravano abitualmente in sede, non aveva una scrivania fissa, nè un armadio (i suoi documenti erano tutti accatastati), ed era sistemata in una zona priva di finestre, e riservata ai dipendenti che lavoravano all’esterno; aveva inoltre dichiarato che, pur avendo egli assegnato alla F., in un secondo momento, altra collocazione, il G. disse che la signora doveva tornare al posto dove si trovava prima;
3b. in tal modo la F., responsabile d’un progetto a rilevanza europea, veniva d’improvviso costretta a riporre i documenti, spesso riservati, relativi a tale progetto, in scatoloni per così dire di fortuna, conservati al di sotto di scrivanie rotanti, che potevano essere assegnate giornalmente ad impiegati diversi;
3c. a differenza di quanto affermato dalla recente elaborazione giurisprudenziale la quale esige la valutazione complessiva dei fatti mobizzanti, le circostanze dedotte dalla ricorrente “erano state considerate singolarmente, assumendo nella decisione e nella motivazione del giudice esclusivamente rilevanza autonoma, ossia in sè e per sè considerate”: nè il giudicante aveva motivato questa valutazione;
3d. egualmente è a dirsi per la mancata assegnazione di risorse al progetto …omissis…, assegnato alla F.; per l’attuazione di questo progetto alla F. erano necessarie altre risorse; e fin quando ella ne era responsabile, al progetto le risorse non furono destinate; egualmente per il fatto di averle negato il corso di lingua inglese (necessario per partecipare ad incontri con colleghi stranieri); ciò emergeva dalle testimonianze del B. e del Ga., che il giudicante aveva immotivatamente omesso di esaminare e valutare;
3c. egualmente significativa era stata poi la rimozione della F. dall’incarico …omissis…, per il fatto in sè, nonchè per la repentinità e le modalità della relativa attuazione (con trasferimento della F. a …omissis…, per coadiuvare la dipendente cui – con la sua rimozione – il progetto era stato affidato, e pur non essendo ella un tecnico addetto alla fase esecutiva);
3f. il non aver inserito questi fatti nel contesto “dinamico evolutivo del mobbing” aveva condotto il giudicante ad una “rappresentazione parziale della realtà”. 4. Con il quarto motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., n. 5 omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che la sentenza, pur ripetutamente esponendo elementi favorevoli alla F. (la sua indebita collocazione nell’area hoteling, in cui erano sistemati solo gli esterni; il suo trasferimento a …omissis… pur non essendo ella addetta alla fase esecutiva), non deduce le necessarie conseguenze.
5. Con il quinto motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., n. 5 omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che:
5a. l’individuazione del tempo necessario a determinare il mobbing è un procedimento logico complesso, in cui è necessario considerare l’ambiente socio – culturale in cui il conflitto si svolge, le reazioni psicologiche del mobbizzato e lo specifico lavoro svolto;
5b. il giudicante aveva semplicisticamente ed immotivatamente ritenuto che la protrazione del comportamento nel periodo di sei mesi (in cui la F. lo aveva subito) non fosse sufficiente a concretizzare il mobbing. 6. Con il sesto motivo, denunciando per l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 e 2087 e 2103 cod. civ., degli artt. 2 e 32 e 41 Cost. e dell’art. 185 cod. pen. nonchè omessa ed insufficiente motivazione, la ricorrente sostiene che:
6a. ella aveva chiesto il risarcimento del danno nei suoi molteplici aspetti: danno patrimoniale in senso stretto, danno biologico, danno morale, danno esistenziale, danno alla professionalità, alla dignità ed all’immagine professionale e sociale, danno alla vita di relazione, danno conseguente alla perdita di chanches lavorative;
6b. e la domanda di risarcimento era stata “prospettata sin dal primo grado anche come sganciata ed autonoma rispetto alla figura onnicomprensiva di mobbing, e basata sulle disposizioni degli artt. 2043, 2087 e 2103 cod. civ., nonchè degli artt. 2 e 32 Cost. e degli artt. 185 e 2059 cod. civ.;
6c. la sentenza aveva ricollegato i lamentati danni esclusivamente a fatti qualificati come mobbing, immotivatamente omettendo “di valutare che ogni singolo comportamento rilevato integrasse gli estremi del danno biologico o morale od alla vita di relazione così come richiesto”;
6d. in particolare, il giudice di merito avrebbe dovuto esaminare la documentazione mendica e le perizie medico – legali prodotte dalla ricorrente, eventualmente disponendo ulteriori mezzi istruttori.
7. I motivi del ricorso, che essendo interconnessi devono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
La sentenza impugnata considera i fatti dedotti dalla ricorrente quale espressione del mobbing. 8. Su un piano generale è da osservare quanto segue.
8a. Il mobbing (come espressamente dedotto e prospettato dalla ricorrente) è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore.
Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359;
Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente:
Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.).
Fondamento dell’illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l’obbligo datorile, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore.
Da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l’intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento – Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 – ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033).
8b. Lo spazio del mobbing, presupponendo necessariamente (nella sua diretta od indiretta origine) la protrazione d’una volontà lesiva, è pertanto più ristretto di quello (nel quale tuttavia s’inquadra) delineato dall’art. 2087 cod. civ., comprensivo di ogni comportamento datorile, che può essere anche istantaneo, e fondato sulla colpa.
8c. Avendo fondamento nell’art. 2087 cod. civ., l’astratta configurazione del mobbing costituisce la specificazione della clausola generale contenuta in questa disposizione. Da ciò discende che:
– come specificazione, il mobbing è parte integrante della disposizione di legge da cui trae origine, di questa in tal modo assumendo giuridica natura;
– per tale natura, la sua formulazione è funzione di legittimità (funzione riservata al giudice di merito – ed esclusa dalla sede di legittimità – è solo l’accertamento dell’esistenza – o dell’inesistenza – del fatto materiale da ricondurre poi al modulo normativo);
– funzione di legittimità è anche la sussunzione del fatto (come accertato) nel modulo normativo;
– nella relativa inosservanza, la specificazione della clausola generale è deducibile (attraverso l’art. 360 c.p.c., n. 3) in sede di legittimità. 8d. Per la natura (anche legittima) dei singoli episodi e per la protrazione del comportamento nel tempo nonchè per l’unitarietà dell’intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore).
D’altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d’una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà. 8c. In questo quadro assume rilievo anche la L. 10 aprile 1991, n. 125, come modificata dal D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145, ed in particolare l’art. 4, comma 2 ter, quale disposizione ricognitiva e specificativa di più generiche norme.
9. Nel caso in esame (ed esternamente allo spazio della discrezionalità aziendale, che caratterizza l’affidamento delle specifiche mansioni e la distribuzione delle singole collocazioni aziendali), alcuni elementi dedotti dalla F. (ed autosufficientemente riportati in ricorso) dal giudicante non sono stati esaminati, ovvero, pur accertati, non sono stati valutati per dedurre (o pur negativamente escludere) la relativa rilevanza ai fini della domanda:
9a. il fatto che, a seguito del “trasferimento di ufficio”, la F. (dirigente cui era stato assegnato il progetto …omissis…, che ella – senza contestazione – sostiene essere “di rilevanza europea”) era stata inserita “in un’area open” che non era quella degli dirigenti, e privata di “una propria scrivania ed un proprio armadio” (“tant’è che i documenti riguardanti il progetto …omissis… si trovavano in scatoloni accatastati vicino alla scrivania da lei usata”: sentenza, p. 8);
9b. il disagio (ritenuto dalla stessa sentenza) della F., che “si era mostrata imbarazzata” per lo svolgimento d’una “riunione relativa al progetto …omissis… che richiedeva riservatezza” (e solo a seguito di ciò la riunione “si tenne comunque in un locale apposito messo a disposizione”);
9c. l’iniziativa del G., il quale, pur essendo il Ga. responsabile della suddivisione degli spazi; ebbe a dire espressamente che la ricorrente doveva essere collocata nello spazio hoteling open ed il fatto che successivamente, poichè il Ga., essendosi liberata una scrivania, aveva invitato la ricorrente a prendervi posto,: il G. quello stesso giorno disse che la signora doveva tornare al posto dove si trovava (testimonianza del Ga., come riportata in ricorso);
9d. il disagio lamentato dalla F. al L.: per la sua collocazione aziendale, per la reiterata (ed insoddisfatta) richiesta di risorse necessarie al suo progetto, per “l’essere stata ostacolata” nel lavoro, per gli “insulti ricevuti anche in pubblico” (sentenza, pp. 11, 12);
9c. le “frasi a dir poco deprecabili” pronunciate dal G. (“personaggio abituato a battute grossolane”), “e che mai un superiore gerarchico dovrebbe profferire nei confronti d’un sottoposto” e rivolte alla F. (“Mi hai rotto i coglioni, hai capito brutta stronza che devi fare quello che dico io”); e le parole rivolte al Ga., “che lavorava in ginocchio presso la scrivania della F.” (“E’ inutile che t’inginocchi, tanto non te la da”): espressioni poste in evidenza dalla stessa sentenza;
9f. la qualificazione (“gravi”) che il teste L. (sul quale il giudicante fonda la decisione) da dei comportamenti del G. e che lo stesso G. gli aveva riferito;
9g. il giudizio dello stesso L. (che aveva la “funzione di supportare e difendere comunque i capi – progetto”, che a lui facevano riferimento: sentenza, p. 13) sull’attività della F. (“andava in quel momento particolarmente seguita”, con il “fornire le dotazioni necessarie”; “se si trattava di trovare altre persone da dedicare a …omissis…, occorreva o dislocare risorse già interne o procedere a nuove assunzioni”), e la sua decisione di “fissare periodiche riunioni nel corso delle quali verificare lo stato di avanzamento dei lavori”;
9h. il fatto che il G. (il 30 giugno 2000) aveva garantito al L. “che la signora sarebbe rimasta al progetto e che lui l’avrebbe supportata pienamente”, ed breve distanza di tempo (il 11 luglio 2000) rimosse la F. dalla responsabilità del progetto …omissis…; la “contrarietà” e la sorpresa del L. per le “valutazioni completamente diverse”, espresse undici giorni prima dal G. (sentenza, p. 13);
9i. la contraddittorietà delle (pur ritenute) valutazioni del G., che “non credeva” in un progetto di cui tuttavia da tempo la F. era responsabile, e che poi garantì di “supportare” il progetto stesso, e che poi rimosse la F. affidando ad altri ed in altra sede l’esecuzione del progetto stesso.
10. Di questi elementi il giudicante non ha poi costruito alcuna connessione nel quadro di un unitario comportamento, al fine di darne una complessiva unitaria valutazione.
Ciò, anche dall’angolazione soggettiva: quale (pur come mera negazione del) deliberato intento lesivo (da parte del dipendente aziendale) e (pur) colposa inerzia datorile.
11. Il giudicante non ha poi valutato i singoli fatti, per accertare (pur al solo fine di negarla) la lamentata (pretesa) illegittimità del loro specifico contenuto.
12. D’altro canto, fondata è anche la censura che la ricorrente muove all’affermazione della Corte d’Appello secondo cui “il periodo febbraio – luglio… pare troppo esiguo per la concretizzazione d’un processo di mobbing” (sentenza, p. 10).
Se è vero, infatti, che il mobbing non può realizzarsi attraverso una condotta istantanea, è anche vero che un periodo di sei mesi è più che sufficiente per integrare l’idoneità lesiva della condotta nel tempo.
Nè ad escludere la responsabilità del datore, quando (come nella specie) il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero – tardivo – intervento “pacificatore” (come quello che la sentenza impugnata attribuisce al L.), non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un’aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto “mobbizante” (cfr. deposizione L., sentenza pag. 13: “rimasi molto contrariato da questo suo cambiamento, anche perchè 11 giorni prima mi aveva espresso valutazioni completamente diverse”).
13. Il ricorso deve essere accolto. E la causa deve essere rinviata a contiguo giudice di merito, che applicherà gli indicati principi (come specificati sub “8” e sub “12”), ed accerterà e valuterà quanto dedotto dalla ricorrente, (e precedentemente indicato sub “9”), nel contempo esaminando, nel quadro della corretta valutazione dell’intera vicenda, le domande ex artt. 2103 e 2110 cod. civ. del cui omesso esame la ricorrente si duole nel primo motivo, e provvedendo anche alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata; rinvia alla Corte d’Appello di Genova, anche per le spese del giudizio di legittimità.