I comportamenti mobbizzanti si concretizzano nel privare il lavoratore della possibilità di esprimersi in azienda isolandolo dai colleghi e dagli altri contatti sociali, nello screditarlo ridicolizzandolo o calunniandolo, nel pregiudicare la sua situazione professionale, ad esempio demansionandolo o non assegnadogli lavoro, nel compromettere la sua salute con incarichi usuranti, orari intollerabili, etc.
Secondo il prof. H. Leymann, autore della celebre “The mobbing Encyclopaedia”, “un lavoratore è sicuramente vittima di mobbing quando si verificano alcune di queste condizioni: all’improvviso gli spariscono o si rompono (senza che vengano sostituiti) strumenti di lavoro come telefoni, computer e lampadine; i litigi o i dissidi con i colleghi sono sempre più frequenti; gli viene messo vicino un accanito fumatore pur sapendo che detesta il fumo; quando entra in una stanza la conversazione generale si interrompe bruscamente; ansietà.
Viene escluso da notizie e da riunioni utili per lo svolgimento del suo lavoro; apprende che girano pettegolezzi infondati sul suo conto; gli vengono affidati da un giorno all’altro incarichi inferiori alla sua qualifica o estranei alle sue competenze; viene sorvegliato ogni giorno di più nei minimi dettagli (come gli orari di entrata e di uscita, le telefonate, il tempo passato alla macchinetta del caffè); riceve rimproveri per piccolezze; le sue richieste sia verbali che scritte non ottengono alcuna risposta; i superiori o i colleghi lo provocano per indurlo a reagire in modo incontrollato; risulta escluso da feste aziendali o da altre attività sociali; viene preso in giro per l’aspetto fisico o l’abbigliamento; tutte le sue proposte sono rifiutate senza valide motivazioni; è retribuito meno di altri colleghi che hanno incarichi di importanza minore”.
In particolare, il prof. H. Leymann ha rilevato almeno quarantadue comportamenti che possono dar luogo a mobbing e che, a loro volta, possono essere ascritti a cinque categorie di condotta degli aggressori:
a) Condotte che agiscono sulla comunicazione professionale.
Si tratta di tutti quei comportamenti che impediscono alla vittima di esprimersi in ambito lavorativo, come, ad esempio, ostacolare la comunicazione sia con i colleghi sia con i superiori; criticare continuamente il lavoro svolto con rimproveri; ignorare eventuali richieste di colloquio da parte del lavoratore e così via.
b) Condotte che agiscono sulla comunicazione interpersonale.
Comprendono tutte quelle attività volte ad isolare la vittima, non soltanto nello svolgimento materiale della sua prestazione (come nel caso delle condotte indicate sub a), ma soprattutto nel mantenimento dei contatti sociali in ambito lavorativo.
Così alla vittima viene tolta la parola o il saluto degli altri colleghi; può essere relegata a veri e propri reparti di confino in cui è alienata da tutto e da tutti; si mormora in sua presenza; ci si comporta come se non ci fosse.
c) Condotte che agiscono sulla reputazione (perdita dell’altrui considerazione).
In questo caso il meccanismo demolitorio mira a provocare la disistima del soggetto sul posto di lavoro, diffondendo pettegolezzi, riportando offese, deridendo pubblicamente, ridicolizzandone particolari caratteristiche fisiche o eventuali handicap.
d) Condotte che agiscono sulla posizione occupazionale (perdita della sicurezza di sé).
Qui si cerca di screditare la vittima nel suo lavoro, manipolandone le prestazioni. Progressiva inattività coatta; svuotamento delle mansioni, reiterazione pesante solo dei suoi errori; ossessivi controlli medici, anche in presenza di una comprovata e conclamata patologia, sono solo alcune delle condotte che possono pregiudicare il lavoro della vittima.
e) Condotte che agiscono sulla salute fisica o psichica. Al lavoratore preso di mira vengono palesemente affidati incarichi pericolosi o gravosi: è il caso dell’operaio che viene mandato al lavoro senza impalcature di sicurezza o quello del portavalori costretto a spostamenti senza una scorta armata, ma in generale questa categoria comprende tutti quei pretesi risultati da realizzare in tempi e modi impossibili o altamente improbabili.
Contrariamente a quanto è spesso erroneamente affermato, il bersaglio di persecuzioni morali nel luogo di lavoro non è un’incapace, uno poco brillante, un debole o un perdente nato.
In realtà, il mobbing è posto in essere allo scopo di eliminare individui scomodi, evidentemente tali rispetto alla propria posizione di potere.
Pertanto, una persona creativa, brillante, originale, innovativa finisce automaticamente per essere anche la più temuta, proprio perché si tende a percepirla come una minaccia per il proprio potere. Non è un caso, infatti, che i mobbizzati siano molto spesso persone validissime in ufficio, di cui, talvolta, si teme l’eccessiva competenza, l’originalità (razziale, fisica, sessuale, religiosa, d’abbigliamento, ma pur sempre difforme rispetto al gruppo di riferimento), l’onestà o addirittura la troppa bellezza o ricchezza.
Il mobbing, a differenza della molestia sessuale, ha un raggio di applicazione molto più vasto: può colpire uomini e donne, giovani o anziani, operai e liberi professionisti.
Quello che, poi, rende insidioso questo fenomeno è che l’attacco si compie anche attraverso attività che sono del tutto innocue e pacifiche nella maggior parte dei luoghi di lavoro (come fumare sigari o sigarette, aprire le finestre, accendere l’aria condizionata, raccontarsi barzellette spinte).
“Ci sono metodi palesi e violenti (attuati attraverso aggressioni verbali o fisiche, urla, allusioni pesanti alla sfera privata o sessuale); sottili e silenziosi (realizzati attraverso un susseguirsi di episodi che portano al progressivo isolamento della vittima e alla sua esclusione graduale dal gruppo); disciplinari (quando, per esempio, un dipendente riceve continue lettere di richiamo ingiustificate, diventa oggetto di un controllo ossessivo allo scopo di coglierlo in fallo e, in caso di malattia, viene perseguitato con uno stillicidio di viste fiscali); logistici (assai comune è il trasferimento del lavoratore in una sede periferica, scomoda e lontana dalla famiglia e dagli amici); e perfino paradossali (quando, al contrario, un dipendente viene promosso a un compito più alto che però non sa svolgere, ed è quindi messo in condizione di sbagliare per poi essere punito).
Analogamente il mobber non perseguita sempre per lo stesso motivo. I motivi possono essere i più svariati: noia, invidia, gelosia, disorganizzazione lavorativa con carenza di regole e relativo carico di stress, e così via.
Siffatte motivazioni, comunque, hanno in genere tutte lo scopo concordato di portare la vittima ad uno stato di depressione tale da costringerla alle dimissioni dal posto di lavoro.
Secondo l’impostazione fornita da Leymann, il mobbing si sviluppa in quattro fasi. In realtà, il mobbing si traduce in una progressiva escalation di comportamenti, reiterati e protratti nel tempo, che vanno da una fase premonitrice, assolutamente neutra o addirittura positiva, fino ad una fase totalmente esplicita, gravida di conseguenze negative per l’occupazione stessa del mobbizzato oltre che, com’è ovvio, per la sua salute.
– Prima fase
Conflitti – Attacchi – Meschinità – Scherzi feroci.
La vittima inizia ad avvertire un certo malessere, che tuttavia cerca ancora di gestire con il ricorso alla razionalità ed alla pazienza.
Di regola dopo sei mesi appaiono disturbi psicosomatici (insonnia, diarrea, vomito, nausea, incubi e così via) che divengono ansia generalizzata entro un anno dall’inizio delle persecuzioni.
– Seconda fase
Dal mobbing al terrore psicologico.
Il protrarsi delle suddette aggressioni per un periodo che va dai quindici ai diciotto mesi determina nella maggior parte dei casi uno stato cronico di ansietà.
Dai due ai quattro anni dall’inizio delle vessazioni appaiono gravi disturbi psichici, quali depressione accompagnata da fobie, automatismo e ruminazioni mentali, ossessioni, dipendenza da farmaci tranquillanti, assenza dal lavoro per malattia.
– Terza fase
Negazione dei diritti della vittima tollerati o decisi dalla direzione del personale.
Normalmente l’ufficio del personale inizia a questo punto ad occuparsi del caso e, come spesso accade, trovandosi a giudicare un fatto in posizione non parziale, tenderà a valutare negativamente la vittima, che di solito viene bollata come ‘problematica’, ‘strana’, ‘piantagrane’, dando vita a un vero e proprio fenomeno di stigmatizzazione.
Ovviamente un tale intervento interno non fa che peggiorare l’immagine del mobbizzato sul posto di lavoro, che finisce, perciò, per sentirsi ancora più vittima.
In questi casi la via preferibile resta infatti l’intervento di sindacalisti esterni all’impresa in cui si trova il mobbizzato.
– Quarta fase
Esclusione dal mercato del lavoro.
Arrivato a questo stadio, il fenomeno è difficilmente arginabile.
Il soggetto viene definitivamente messo al bando, essendo il mobber riuscito a consolidare il suo intento.
Frequente è la cronicizzazione di manie ossessive, più raro, ma comunque possibile, il rischio di suicidi e lo sviluppo di comportamenti criminali.
Anche quando non si decide per il licenziamento con indennità o per la decisione autoritaria di internamento psichiatrico, l’esclusione dal mercato del lavoro avviene, comunque, mediante l’assegnazione di incarichi di minor importanza o la successione di trasferimenti da un posto all’altro.
In questo caso, la messa in invalidità della vittima è quasi fisiologica, il che comporta evidentemente un periodo di malattia di lunga durata, che ha come diretta conseguenza l’eliminazione fisica del mobbizzato o, comunque, il suo allontanamento dal posto di lavoro.
A queste fasi, il prof. H. Ege, uno dei massimi esponenti europei nello studio dell’argomento, ne aggiunge due ulteriori: una pre-fase detta ‘condizione zero’ e la costante del ‘doppio mobbing’, tipiche, appunto, dell’esperienza italiana.
La condizione zero rappresenta, in particolare, la predisposizione d’animo a mobbizzare, senza che per questo sia già stata designata una vittima.
Successivamente si sviluppa, però, la convinzione di dover distruggere per poter emergere, così il mobber procede a individuare il mobbizzabile e a mettere in atto le strategie dirette a eliminarlo dall’azienda.
La costante del doppio mobbing è, invece, ancora più caratteristica dell’esperienza italiana, proprio perché si basa sul profondo e quasi mai soluto legame che il mobbizzato ha con la sua famiglia. La progressiva perdita di autostima ed il progressivo isolamento sono, infatti, idonei a condizionare pesantemente la vita, non solo lavorativa, ma anche personale e familiare della vittima. Ecco che al mobbing sul posto di lavoro si aggiunge quello a casa, facendo piombare il soggetto in uno stato di sempre crescente isolamento, depressione e ansietà.