Il principio dell’essenziale gratuità del mutuo soffriva due eccezioni: l’una per il mutuo delle civitates, l’altra per il c.d. foenus nauticum.
Tuttavia è opportuno subito sottolineare che entrambi i casi esulavano dal campo di applicazione proprio del mutuo, pur trattandosi di negozi economicamente analoghi .
Per i mutui concessi dalle civitates vigeva un regime particolare non rapportabile a quello predisposto per i rapporti analoghi tra cittadini romani comuni. Quando il mutuante era un ente pubblico , l’affare era contemplato come produttivo di interessi ex nudo pacto. Era sufficiente che nel mutuo fosse inserita una clausola che prevedesse le usurae, perché nascesse il relativo obbligo.
Una figura speciale di mutuo era il prestito marittimo che i giuristi classici chiamarono pecunia traiecticia o pecunia nautica e che nella compilazione giustinianea fu poi chiamato foenus nauticum .
Definendo tale contratto, il Guarino diceva che esso “… aveva luogo quando taluno prestasse una somma di denaro ad un armatore di una nave affinché questi la utilizzasse oltremare, o la impiegasse per l’acquisto di merci da trasportare oltremare o per l’acquisto di materiali e attrezzi della navigazione”.
Il mutuatario era obbligato a restituire il denaro soltanto se la nave giungeva felicemente in porto, di modo che era il creditore-finanziatore, e non il debitore-finanziato, a sopportare il rischio della perdita del denaro o delle merci in cui era stato convertito .
In corrispondenza della gravosità del rischio, particolarmente elevato dati i mezzi di navigazione d’allora e la diffusione della ‘pirateria’, era ammessa la prestazione di interessi più alti dell’ordinario .
In proposito Paolo (sent. 2.14.3) scriveva: “traiecticia pecunia propter periculum creditoris, quamdiu navigat navis, infinitas usuras recipere potest”.
Probabilmente il creditore godeva anche di un diritto di pegno sulle merci , che si estingueva con la restituzione del capitale e la corresponsione degli interessi.
L’utilità del δάνειον ναυτικόν consisteva per il capitalista nell’investire il suo denaro con la prospettiva di un grosso guadagno, mentre il ναύκληρος mirava a salguardarsi dai rischi della navigazione.
La pratica del negozio si diffuse nel diritto greco, specie nelle città dedite al commercio ed all’attività marinara , dalla fine del V secolo a.C.
L’operazione commerciale fu recepita dai Romani soltanto intorno al III-II secolo a.C.
È interessante notare la prudenza e la cautela con cui fu accolto quel novum negotium: certamente tanto tempo dovette trascorrere affinché l’istituto penetrasse nello spirito della società romana tradizionalmente legata ad un’economia agricola e pastorale e perciò di per sé non avventurosa, che, viceversa, per i Greci rappresentava ‘la linfa stessa della vita economica’ .
Plutarco riferiva che già Catone il Vecchio, nell’avanzato II secolo a.C., soleva investire i suoi soldi nel prestito marittimo, che pure era il più biasimato dei prestiti.
Ai tempi di Cicerone, cioè nel I secolo a.C., la pecunia traiecticia era ormai entrata negli affari dei capitalisti romani .
La giurisprudenza la inserì tra i contratti reali e verbali, fornendola di una qualche apparenza di romanità. Tuttavia nel sistema contrattuale la pecunia traiecticia rimase fondamentalmente un istituto ‘estraneo’ , come tutti quelli provenienti dal diritto greco.
Le maggiori difficoltà per l’inquadramento in termini di diritto romano dell’operazione derivavano dal fatto che mentre per i Greci il mutuo era normalmente oneroso, il tasso d’interesse era di regola libero o comunque indipendente da una esplicita pattuizione tra le parti ; per i Romani il mutuum era per sua natura gratuito e per obbligare il mutuatario alla corresponsione delle usurae bisognava ricorrere ad un’apposita stipulatio.
Una delle maggiori problematiche derivanti dall’esercizio del negotium di origine greca riguardava la forma giuridica in cui quell’operazione dovesse essere trasfusa: che fare quando il sovvenzionatore che non si fosse fatto promettere le usurae con l’apposita stipulatio le chiedeva in giudizio?
Paolo, come del resto Scevola, scrisse che l’essenza del foenus nauticum era, per l’appunto, l’obbligo di corrispondere interessi superiori a quelli sanciti dalla legge, come una sorte di conseguenza legale dell’assunzione del periculum da parte del creditore e affermava che allo scopo veniva utilizzata la stipulatio, ma sarebbe stata sufficiente anche un mero pactum: esso sarebbe stato senz’altro valido per sortem cum iuris recipere .
Si contestò fortemente l’autenticità di tale affermazione dato che proprio Paolo (Sent. 2.14.1) aveva scolpito la regola “Si pactum nudum de praestandis usuris interpositum sit, nullius est momenti: ex nudo pacto inter cives Romanos actio non nascitur”.
Il nostro giurista, però aveva anche scritto che l’inidonietà del nudum pactum usurae a far sorgere l’actio-obligatio valeva soltanto inter cives Romanos. È presumibile che l’istituto marittimo veniva praticato soprattutto dai peregrini dediti all’attività marinara : per loro, per lo più di cultura giuridica ellenistica, abituati nella pratica giuridica quotidiana alle forme scritte, l’accordo non formale aveva lo stesso valore della solenne stipulatio .
Inoltre tutti i giuristi erano preoccupati da un possibile ricorso allo schema del foenus nauticum per aggirare i provvedimenti legislativi in materia di usurae. Per scongiurare questa infausta e fraudolenta eventualità, procedettero all’individuazione della specifica fisionomia di quel negozio, ne determinarono, insomma, la causa negoziale e stabilirono che solo quando sussistevano tutti i suoi elementi era applicabile il regime del nauticum foenus per pecunia traiecticia.