Cassazione penale, sez. I, 29 luglio 2008, n. 31456
Svolgimento dei processo
La mattina del 30.1.2002, alle ore 8.27’.30”, Annamaria Franzoni telefonava dal proprio cellulare alla dott.ssa Ada Satragni, suo medico curante e vicina di casa, comunicandole che il figlio Samuele, di 3 anni e 2 mesi, perdeva sangue dalla bocca e che “gli era scoppiato il cervello”; successivamente, alle ore 8.28’.17’’, la donna telefonava dal telefono fisso al 118, riferendo all’operatrice che il figlio vomitava sangue, ed alle ore 8.29’.26” chiamava la ditta presso cui lavorava il marito Stefano Lorenzi, comunicando ad un’impiegata che il piccolo era morto. Subito dopo (o tra una telefonata e l’altra) la Franzoni chiamava dalla finestra la vicina Daniela Ferrod in Guichardaz, dicendole che Samuele “stava perdendo sangue dalla testa”.
Nell’ordine sopraggiungevano nell’abitazione della famiglia Lorenzi la Ferrod (la quale constatava la presenza di Samuele supino sul letto matrimoniale con la faccia e la testa insanguinate, che si lamentava ed emetteva dei suoni, aprendo e chiudendo gli occhi), la Satragni, accompagnata dal suocero Marco Savin, la quale trovava il bimbo “collassato in una pozza di sangue”, coperto fino all’inguine od alla cintola, con ferite al capo, da una delle quali fuoriusciva materia cerebrale, ancora gemente e con polso carotideo) e, da ultimo, il dott. Iannizzi, arrivato con l’elicottero dell’elisoccorso, secondo cui il piccolo era in stato comatoso terminale, con respiro “automatico” e non più reattivo agli stimoli.
Il bambino veniva dichiarato ufficialmente morto alle ore 9.55’ preso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Aosta, essendo risultate vane le manovre rianimatorie prontamente attuate dal dott. lannizzi.
Le prime indagini venivano svolte dai Carabinieri di Cogne e di Aosta nonché da una squadra del R.I.S. di Parma; si procedeva a rilievi delle tracce individuate sul posto ed al sequestro di un paio di zoccoli e di un pigiama da donna, rinvenuto sul letto matrimoniale (i pantaloni seminascosti sotto un risvolto del piumone e la casacca tra le lenzuola, Quasi al fondo del letto).
Il C.T. del P.M. prof. Viglino, incaricato dell’autopsia, individuava la causa della morte in un grave trauma cranio-encefalico, con sfacelo della regione fronto¬temporo-parietale e rottura di importanti vasi arteriosi meningei, con imponente emorragia ed anemia meta-emorragica, shock ipovolemico ed importante edema cerebrale maligno.
Il consulente attribuiva a fenomeni di c.d “reviviscenza” di tipo agonico i segni vitali descritti dai primi soccorritori e stabiliva in 5-17 minuti il tempo di sopravvivenza all’aggressione, ritenendo, tuttavia, non determinabile l’ora del decesso per mancanza di dati tanatologici attendibili.
Le indagini, incentrate sull’esame, da parte dei tecnici del R.I.S., delle macchie di sangue, certamente proveniente dalla vittima, presenti sul piumone del letto, sul pigiama e sugli zoccoli in sequestro nonché sui muri e sul soffitto della stanza da letto ed in altri locali dell’abitazione (esame compiuto con il metodo denominato “Bloodstain Pattern Analisys” o “B.P.A”), portavano a concludere, stante l’ubicazione della “void area” (zona immune da macchie ematiche) presentata dal piumone, che l’aggressore avesse agito inginocchiato sul letto di fronte al bimbo, indossando il pigiama e gli zoccoli succitati e brandendo con la destra un oggetto contundente munito di manico di apprezzabile lunghezza.
Tali conclusioni erano confutate dai consulenti della difesa prof. Torre e dott. Robino, secondo i quali l’aggressore, almeno in una prima fase, aveva agito in piedi, non indossando né gli zoccoli, privi di macchie sulle tomaie, né il pigiama, che si sarebbe trovato disordinatamente riverso sul piumone, nella zona definita come “void area”.
Durante le indagini venivano, altresì, espletate simulazioni per verificare i tempi a disposizione di un eventuale terzo estraneo per commettere l’omicidio senza essere visto dalla Franzoni lungo il percorso dall’abitazione alla fermata dello scuola-bus e ritorno e venivano controllati, con esito per essi favorevole, gli alibi di soggetti ipoteticamente sospettabili dell’esecuzione del delitto.
Si procedeva, inoltre, nelle forme dell’incidente probatorio, a perizia psichiatrica sull’indagata, ed il collegio peritale concludeva per la piena capacità di intendere e di volere della donna all’epoca del fatto, nonostante le confutazioni al riguardo del C.T. del P.M.
Con ulteriori incidenti probatori si provvedeva 1) all’assunzione delle testimonianze della Ferrod e di membri della famiglia Guichardaz; 2) all’espletamento di perizia su nuove tracce individuate in sede di indagini difensive; 3) all’effettuazione di perizia (perito dott. Schmitter), secondo il metodo “B.P.A.”, sulle tracce di sangue già esaminate dal R.I.S. e sul loro significato ai fini della ricostruzione del fatto omicidiale (il perito concludeva per il sicuro indossamento dei soli pantaloni del pigiama da parte di aggressore inginocchiato sul letto, alquanto a sinistra della vittima, mentre i consulenti della difesa ritenevano che il pigiama fosse adagiato sul letto o sul pavimento e che l’aggressore avesse agito stando in piedi); 4) all’espletamento di perizia affidata al prof. Boccardo per la verifica della compatibilità (ritenuta esistente) tra la macchia ematica con adeso frammento osseo rinvenuta su di una manica della casacca del pigiama e la macchia con calco localizzata sul lenzuolo copri-materasso; 5) all’effettuazione di perizia (perito prof. Pascali) sulle tracce esistenti sugli zoccoli della Franzoni; 6) all’espletamento di perizia trascrittiva delle conversazioni intercettate svoltesi tra i coniugi Lorenzi all’interno della sala di aspetto della caserma dei CC. di Saint Pierre ed a bordo di un’autovettura “Pajero”.
Con la sentenza di primo grado, resa all’esito di giudizio abbreviato e con la quale l’imputata era stata condannata alla pena di 30 anni di reclusione, il Gup riteneva scientificamente valido il metodo di esame delle macchie ematiche denominato “B.P.A.” e provato in modo certo l’indossamento, da parte di aggressore inginocchiato sul letto, sia dei pantaloni del pigiama che degli zoccoli, recanti tracce di sangue della vittima, mentre solo probabile era giudicato anche l’indossamento della casacca.
In base alle testimonianze assunte (testi Satragni, Ferrod e Savin) veniva, altresì, ritenuto provato che all’atto dei soccorsi la Franzoni indossasse, sin dall’inizio, stivaletti neri e non i predetti zoccoli.
Il primo giudice riteneva, inoltre, il quadro indiziario a carico dell’imputata validamente integrato dal mancato avvistamento di terzi nella zona nel ristretto periodo di tempo in cui la prevenuta si era allontanata dall’abitazione; dalla mancanza di alibi della stessa, tranne che per il periodo dalle 8.16’ alle 8.24’ circa (durante il quale la donna si era assentata da casa per accompagnare al bus il figlio Davide); dalla costante abitudine della prevenuta di chiudere in simili occasioni la porta di casa (pur non potendosi affermare con certezza che altrettanto costei avesse fatto anche la mattina del delitto); dall’implausibilità dell’ipotesi che un estraneo avesse, per commettere l’omicidio, indossato i pantaloni del pigiama e gli zoccoli della donna; dal mendacio dell’imputata circa l’indossamento degli zoccoli subito dopo il suo rientro in casa; dai termini riduttivi circa le condizioni del figlio usati nel telefonare al 118 e nel riferire l’accaduto alla Ferrod ed alla Satragni, in contrasto con quanto detto all’impiegata della ditta dove lavorava il marito, cui aveva riferito che Samuele era morto; dalla freddezza mostrata dall’imputata subito dopo il fatto, non accompagnando il figlio sull’elicottero e chiedendo immediatamente al marito di darle un altro figlio; dall’assenza di contrasti con i vicini (dei quali era, comunque, stato verificato l’alibi) tali da rendere ipotizzabile un simile gesto di vendetta.
Il Gup considerava, poi, che l’imputata aveva avuto la concreta possibilità di nascondere l’arma del delitto e che il periodo di assenza della donna da casa era troppo ristretto per poter accreditare l’ipotesi di un’incursione nell’abitazione di un terzo non visto da alcuno, che, liberatosi dei propri vestiti invernali, avesse indossato il pigiama della Franzoni (od i soli pantaloni) e gli zoccoli, dismettendoli subito dopo l’omicidio ed uscendo, sempre non visto da alcuno e senza lasciare tracce del proprio passaggio.
Nel corso dei giudizio di appello, celebrato in udienza pubblica su richiesta della prevenuta, veniva disposta la rinnovazione parziale del dibattimento per l’acquisizione di documenti audiovisivi e di altra natura, l’assunzione di testi e l’espletamento di ulteriori perizie (di trascrizione, psichiatrica, neurologica, sulle tracce ematiche del pavimento della camera da letto ed altre) nonché per l’esame dell’imputata.
A conclusione di detto giudizio la corte di secondo grado, concesse all’imputata le attenuanti generiche, dichiarate equivalenti all’aggravante, ha ridotto ad anni 16 di reclusione (pena base anni 24) la sanzione già irrogata alla medesima nel precedente grado.
Ribadita l’affidabilità del dato relativo al tempo di sopravvivenza della vittima dopo l’aggressione, quantificato dal C.T. del P.M. prof. Viglino in uno spazio variabile tra i 5 ed i 17 minuti e dal CT della difesa prof. Torre in una decina di minuti, la corte territoriale evidenziava che nella relazione del 9.5.2002 il prof. Viglino, in esito agli esami compiuti, aveva sciolto i dubbi iniziali, concludendo che all’atto dell’intervento della dott.ssa Satragni era già sopravvenuta la “morte relativa” del piccolo e che l’esatta ora del decesso non poteva essere determinata nemmeno con criterio di mera verosimiglianza (conclusione asseritamente non confutata dai CC. TT. della difesa) e precisando che i fenomeni apparentemente vitali constatati dai primi soccorritori dovevano ricondursi al fenomeno della c.d. “reviviscenza”, verificabile per effetto delle manovre rianimatorie tendenti a richiamare in vita l’individuo, alla quale seguono la c.d. “morte intermedia”, in cui permangono attività biologiche elementari ed incoordinate a livello cellulare ed, infine, la “morte assoluta”, in cui cessa ogni manifestazione di vita.
Ad avviso della corte il prof. Viglino non aveva affermato che i fenomeni di “reviviscenza” (contratture muscolari, tetanie, gasping respiratorio) possono manifestarsi solo nei primissimi minuti dalla “morte relativa” ma che solo manovre attuate nei primissimi minuti dall’instaurarsi dalla morte relativa possono avere l’effetto di richiamare in vita l’individuo; del resto, detti fenomeni erano stati constatati sia alle ore 8,30 dai primi intervenuti che alle 8,51 dal dott. Iannizzi, ma si sarebbe trattato di atti respiratori non validi, come desunto dalla mancata aspirazione di materiale ematico, pur presente nel cavo orale e nella faringe della vittima.
Da quanto sopra i giudici del gravame desumevano l’infondatezza dell’assunto difensivo secondo cui, detraendo dall’ora della morte, fissata tra le 8,29 e le 8,31 in base alle originarie approssimazioni del Viglino, il periodo di sopravvivenza, l’aggressione si sarebbe verificata nel periodo di tempo di assenza da casa della Franzoni (ovvero tra le ore 8,16/8,18 e le ore 8,23/8,24), non potendosi escludere che l’omicidio fosse stato commesso immediatamente prima od immediatamente dopo tale intervallo, pur apparendo la seconda ipotesi da escludere per l’eccessiva ristrettezza del lasso di tempo disponibile tra il termine finale del predetto intervallo e l’ora della prima telefonata (8.27’30”).
La corte ha, successivamente, preso in esame (pagg.183-190) il metodo della BPA, evidenziandone le regole e le finalità ed affermandone, conclusivamente, la scientificità e l’affidabilità anche in presenza di variabili (superfici non piane, corpi in movimento, natura dei tessuti ecc.), ferma, ovviamente, restando la necessità di tenerne debito conto nei singoli casi concreti e la possibilità che dette variabili impediscano di raggiungere risultati in termini di matematica precisione, ed ha motivato in ordine alla competenza e professionalità del perito designato dott. Schmitter, facente parte del Bundeskriminalamt di Wiesbaden, precisando che il medesimo aveva preliminarmente redatto apposito protocollo unitamente ai CC.TT. delle parti.
Passando alla disamina dei risultati peritali, i giudici di appello hanno condiviso le conclusioni del dott. Schmitter circa la collocazione del piumone, al momento del fatto, con la parte superiore vicino alla testa del bambino, rimasta, peraltro, scoperta, e con la void area a circa 80, 100 centimetri dalla fonte del sanguinamento, essendo il piumone stato abbassato solo in un momento successivo e costituendo l’aggressore,inginocchiato sul letto, una barriera verticale al propagarsi degli schizzi, come evidenziato, oltre che dalla posizione delle macchie sulla coperta, anche dalla forma rotondeggiante e dalla densità e localizzazione delle stesse principalmente sulla parte superiore dei pantaloni del pigiama – indossati dall’agente – nonché dalle macchie sul soffitto derivanti dal brandeggio dell’arma, munita di manico di una certa lunghezza.
Un primo indizio grave e preciso a carico dell’imputata, in quanto integrato da fatto ritenuto assolutamente certo, era, dunque, costituito dalla circostanza che l’aggressore indossava i pantaloni del pigiama della Franzoni, agendo inginocchiato sul letto, non essendo ipotizzabile che detto indumento, nel ristretto lasso di tempo disponibile, fosse stato indossato e poi dismesso da un terzo estraneo introdottosi nell’abitazione.
Rivalutando i risultati delle indagini del R.I.S., trascurati dal G.U.P. in quanto considerati superati dalle disposte perizie, i giudici del gravame hanno, inoltre, ritenuto provato che l’aggressore indossasse (al rovescio e con il lato anteriore sul dorso) anche la casacca del pigiama (circostanza ritenuta solo probabile da parte del primo giudice), donde la configurabilità di un secondo elemento indiziante nei confronti della prevenuta.
Detta casacca, originariamente rinvenuta al rovescio, raggomitolata sotto il piumone ed il lenzuolo superiore, in modo da non essere visibile e da non venire notata da alcuno dei soccorritori intervenuti, presentava macchie di sangue solo sul rovescio e su entrambi i lati (assenti macchie da “trapassamento” o contatto tra lembi contrapposti del tessuto), con prevalenza sul fianco destro ed, in particolare, sulla manica destra (rispetto al verso di indossamento), interessata da una macchia di grosse dimensioni con adeso un piccolo frammento osseo di forma vagamente triangolare, non trapassata sul lato opposto della casacca (a dimostrazione del suo indossamento) né sul sottostante lenzuolo e ritenuta spiegabile solo con un contatto del braccio con la pozza di sangue frammisto a frammenti ossei esistente vicino al capo della vittima (donde la deduzione che l’indumento, macchiatosi durante l’azione delittuosa, fosse stato intenzionalmente occultato sotto il piumone dopo l’essiccamento delle macchie ematiche, realizzabile in circa due minuti, due minuti e mezzo).
Il perito dott. Schmitter, pur concludendo che la tecnica della “B.P.A.” non consentiva di accertare se la casacca fosse indossata o meno da parte dell’aggressore, aveva, tuttavia, escluso che essa potesse trovarsi sulla void area del piumone, intorno alla quale non erano presenti una conformazione di macchie a pioggia ed una densità delle stesse come quelle rinvenute sia sui pantaloni che sulla casacca del pigiama (che se collocati nella void area, stante la sua circoscritta superficie, avrebbero dovuto trovarvisi compressi e non distesi, in modo tale da non poter subire un imbrattamento ematico così ampio come quello effettivamente rilevato).
La corte aveva, inoltre, desunto l’indossamento della casacca da parte dell’aggressore dalla corrispondenza morfologica e dimensionale tra la macchia sulla manica con adeso il predetto ossicino ed il calco rinvenuto nella parte alta del lenzuolo coprimaterasso, imprimibile mediante pressione su di esso del braccio destro del soggetto agente.
Altro indizio veniva ravvisato nell’accertata presenza sullo zoccolo sinistro della Franzoni di due schizzi di sangue della vittima ritenuti “da proiezione” o “da impatto” (uno sulla suola ed uno sul tacco) e di un traccia genotipica mista (proveniente da Samuele e dalla madre) sul piantare nonché di imbrattamenti ematici da calpestio presenti in genere sotto entrambe le suole, giudicati dimostrativi dell’indossamento di dette calzature da parte dell’aggressore, essendo stata esclusa l’ipotesi che dette macchie si fossero formate all’atto dei soccorsi, allorché, secondo le concordanti ed attendibili testimonianze acquisite, la donna indossava stivaletti neri, le cui suole non presentavano, peraltro, alcuna contaminazione, non avendo, evidentemente, la donna calpestato le gocce di sangue cadute durante il trasporto del bimbo all’esterno; ed anche ove, come sostenuto dall’imputata, costei, all’arrivo della Satragni, avesse ancora indosso gli zoccoli, gli stessi non si sarebbero potuti macchiare in detta circostanza, dovendosi le macchie di sangue sul pavimento ritenere già essiccate, come desunto dalle indicazioni cronologiche fornite al riguardo dagli esperti e dimostrato dal mancato trasferimento di tracce ematiche in altri locali della casa.
Anomala era anche giudicata la presenza, nella stanza da letto, di un solo calzino bianco della prevenuta, recante tracce di sangue della vittima, irreperibile essendo risultato l’altro, unitamente alla circostanza che la donna avesse riferito di aver indossato, per uscire di casa, gli stessi indumenti della sera prima, tranne le calze, un diverso paio delle quali aveva prelevato dal comò, asseritamente perché più calde ed adatte alla stagione.
I giudici di entrambi i gradi avevano, poi, ritenuto mendace espediente difensivo (in quanto recisamente smentito dalla teste), e quindi ulteriore elemento indiziante, l’assunto dell’imputata di essere salita ad indossare gli stivaletti su invito della Satragni, nella previsione di dover accompagnare Samuele sull’elicottero, lasciando gli zoccoli nell’antibagno della zona giorno dove erano stati trovati dai CC, perfettamente allineati ad un paio di scarpe da uomo (la Satragni aveva, infatti, riferito di averli visti nel bagno, accanto al lavandino, donde la deduzione che la Franzoni li avesse spostati per farli apparire in buon ordine e distogliere l’attenzione degli inquirenti dagli stessi).
Del tutto implausibile era, del resto, considerata l’ipotesi che un aggressore estraneo avesse cercato e trovato gli zoccoli, indossandoli durante l’azione omicidiale e poi riportandoli a posto, mentre se l’estraneo avesse continuato ad indossare le proprie calzature avrebbe dovuto lasciare tracce del sangue di Samuele durante la fuga (tracce, invece, risultate assenti, tali non essendo quelle individuate solo in sede di indagini difensive nel garage dai consulenti della prevenuta e mai precedentemente viste e rilevate, mentre ascrivibili a movimenti effettuati dalla Franzoni per recarsi a telefonare o per reperire il materiale di medicazione richiestole dalla Satragni potevano ritenersi le due tracce – una sulla destra del muro ed una sulla ringhiera di sinistra, salendo – rinvenute lungo la scala di accesso al piano-giorno.
Altro capitolo della sentenza riguarda le simulazioni compiute per accertare i tempi di percorrenza da casa Lorenzi alla fermata dello scuola-bus e verificare se un terzo
estraneo avesse avuto la possibilità di controllare le mosse della Franzoni ed, una volta vistala uscire di casa, raggiungere l’abitazione, consumare l’omicidio ed allontanarsi senza essere visto dall’imputata, nella fase finale del percorso di ritorno, né da altri.
Le indagini avevano consentito di appurare che l’intero percorso di andata e ritorno, compresa la sosta alla fermata del bus, poteva, in media, essere compiuto dalla donna (che, peraltro, aveva riferito di averlo effettuato ad andatura veloce), in 5’ e 43”, ma che sensibilmente inferiore era il tempo per cui l’ingresso della propria abitazione sarebbe rimasto nascosto alla sua vista e, quindi, il tempo per agire, con le modalità accertate nel caso concreto, a disposizione di un terzo estraneo, che avrebbe dovuto sapere subito dove dirigersi e dove trovare il bambino, oltre che essere a conoscenza che la porta d’ingresso all’abitazione era stata, contrariamente al solito, lasciata aperta (come, da ultimo, sostenuto dall’imputata).
L’esclusione dell’ipotesi dell’azione compiuta da un terzo veniva, pertanto, annoverata tra gli indizi a carico della Franzoni, alla quale erano ascritti, come ulteriori elementi indizianti, il ritardo nella chiamata al 118, le informazioni riduttive e fuorvianti comunicate alla telefonista (cui rappresentava un fenomeno patologico naturale, nonostante l’ammissione, subito fatta agli inquirenti (v. pag. 38), di aver visto le ferite sul capo del bimbo) e la mancata chiamata al marito, che sapeva fuori ufficio, sul cellulare del medesimo nonché la comunicazione all’impiegata che il figlio era morto, del tutto dissonante rispetto a quanto riferito alla Satragni ed all’addetta al 118.
A carico della Franzoni deponeva, inoltre, secondo la corte di merito, il mendace assunto, formulato a far tempo dal 6.2.2002, di aver, contrariamente alle sue abitudini, lasciato la porta aperta, diversamente da quanto riferito dalla Satragni, secondo cui la donna aveva, nell’immediatezza, affermato categoricamente di averla chiusa; di qui l’insostenibilità dell’ipotesi di responsabilità di un terzo estraneo, in mancanza di segni di effrazione sulla porta.
Mendace era anche ritenuta l’affermazione dell’imputata di essere uscita contestualmente o subito dopo il figlio Davide, mentre doveva ritenersi provato (in base alle prime dichiarazioni della stessa Franzoni – pagg. 38-42 -, del marito – evidentemente in tal senso informato dalla moglie – e del bambino) che Davide era uscito, intrattenendosi all’esterno con la bicicletta, alcuni minuti prima della madre, la quale doveva ancora vestirsi ed indossava, pertanto, nella circostanza, il pigiama.
Elemento indiziante era giudicato, altresì, il mancato ritrovamento dell’arma del delitto, verosimilmente da identificare in un arnese di rame, stante il reperimento di una particella di rame conficcata in una ferita della vittima (da escludere — invece — l’ipotesi dell’impiego di un sabot formulata, da ultimo, dal C.T. della difesa prof. Torre), posto che, trattandosi certamente di delitto d’impeto, implicante l’utilizzo di un oggetto presente nell’abitazione, e considerato che non era stata denunciata la sparizione di alcunché dalla stessa, solo la Franzoni avrebbe avuto l’interesse e la possibilità di ripulirlo, ricollocandolo al suo posto, ovvero di occultarlo o farlo sparire.
La corte ha, inoltre, escluso l’attendibilità delle dichiarazioni rese il 27.7.2002 da Davide Lorenzi in sede di indagini difensive in quanto frutto di palesi pressioni suggestive oltre che nettamente contrastanti con quelle dal medesimo rese al P.M. in data 1.2.2002, dovendosi, in base a queste ultime, alle dichiarazioni di Stefano Lorenzi ed alle iniziali ammissioni della stessa imputata, ritenere provato, come già detto, che Davide uscì di casa alcuni minuti prima della mamma, rimasta in casa per vestirsi, e che il bambino non presenziò affatto al trasferimento di Samuele nel letto matrimoniale riferito dalla prevenuta.
I giudici di appello hanno anche ritenuto provato, in base alle testimonianze assunte, che la Franzoni nutriva preoccupazioni circa la normalità fisio-psichica di Samuele, con particolare riguardo alla conformazione del capo, ritenuto troppo grande ed “emanante calore”, tanto da definire il bimbo un nanetto e da dichiarare alla Satragni, dopo il fatto, di aver avuto il presentimento che iI figlio sarebbe morto.
Quanto al tenore delle conversazioni, telefoniche ed ambientali, sottoposte ad intercettazione, pur essendovi prova che i coniugi Lorenzi prevedessero il controllo delle telefonate ed, a partire almeno dal 13.2.2002, anche delle conversazioni svolgentisi a bordo di autovetture (donde i ripetuti riferimenti alla necessità di cautela e circospezione), la corte territoriale ha, comunque, da esse desunto il ruolo di regista della vicenda processuale svolto dal padre dell’imputata, mirante alla difesa della figlia, anche mediante ricerca di autorevoli contatti esterni e manipolazione della verità attraverso costruzione di false tracce e piste alternative, ed ha ravvisato, altresì, l’affiorare, nei discorsi dell’imputata, di espressioni (lapsus) ritenute significative di implicite ammissioni o di “proiezione” sulla Ferrod (subito indicata come possibile autrice dell’omicidio) del proprio stesso operato, nonché il prevalere della preoccupazione per la propria posizione processuale sul dolore per la morte del figlio.
Conclusivamente, la sentenza impugnata ha ricostruito il fatto ritenendo che la Franzoni avesse commesso l’omicidio, con ancora indosso il pigiama (con la casacca rovesciata ed al contrario, verosimilmente reindossata dopo il risveglio di Samuele per fargli credere che sarebbe rimasta in casa) e gli zoccoli calzati, salendo in ginocchio sul letto, nell’intervallo compreso tra le 8,08/8,10 (ora di uscita del figlio Davide) e le 8,15/8,16 (ora della sua uscita da casa) e trovando anche il tempo di compiere, con estremo controllo di sé e recuperata lucidità, le prime operazioni di riassetto della scena del delitto e di occultamento delle prove, poi, completate al suo rientro, prima dell’effettuazione delle telefonate di cui si é inizialmente riferito.
Relativamente al tema dell’imputabilità, mentre la perizia disposta in primo grado aveva concluso per la piena capacità di intendere e di volere dell’imputata, quella disposta nel giudizio di appello, effettuata senza la collaborazione della perizianda, sottrattasi ai colloqui clinici con i periti, ma con l’integrazione di una perizia neurologica condotta su documentazione clinica pregressa, ha concluso, dopo lungo ed analitico excursus, per l’esclusione di sintomi di psicosi, ovvero di malattia mentale nosograficamente riferibile ad una c.d. “patologia maggiore”, e per Ia sussistenza, al momento del fatto, di un vizio parziale di mente, determinato da uno “stato crepuscolare orientato”, integrante “grave disturbo di personalità” in soggetto affetto da sindrome ansiosa con conversione somatica su base isterica ed inducente un “restringimento del campo di coscienza”, connotato da disturbi che possono esordire bruscamente ed altrettanto bruscamente terminare, dopo un periodo variabile da pochi minuti ad alcuni giorni, nei quali l’attività ideica è sostituita da un pensiero immaginativo, dotato di intensa carica affettiva, con stato simil-onirico, al termine del quale si verifica amnesia, totale o parziale, anche mediante rimozione, sia dei contenuti immaginativi che degli agiti.
La corte di merito ha, tuttavia, ritenuto che tale diagnosi non fosse compatibile con la condotta tenuta dall’imputata nei momenti immediatamente successivi al fatto, connotata da gesti coscienti compiuti in funzione defensionale rispetto a possibili indagini, posto che, anche secondo i periti, “l’esercizio di un’attività difensiva articolata non è compatibile con un’alterazione profonda dello stato di mente, della coscienza o con un’alterazione tanto profonda da determinare un amnesia “ e che “se l’agente ha occultato un oggetto sporco di sangue, sapendo che quella era l’arma del delitto, allora questa consapevolezza contrasta con l’ipotesi dello stato crepuscolare rilevante dal punto di vista dell’imputabilità, perché vuol dire che la coscienza (al momento del fatto) non era alterata al punto da non consentire una consapevolezza di quello che stava facendo, di quello che avveniva, ed era tale da consentire un controllo “; analogo discorso veniva formulato per l’occultamento della casacca del pigiama e per l’immediata “ricomposizione”, dopo il fatto, dell’imputata, che aveva avuto cura di non lasciare tracce sul percorso dalla camera da letto al piano soprastante, avendo gli esperti oralmente concluso che potevano rientrare nello stato crepuscolare orientato, come gesti automatici, quelli rientranti nella routine quotidiana, mentre ne esulavano quelli finalizzati all’occultamento di prove od alla simulazione artefatta di serenità ed indifferenza.
La corte ha, successivamente, esaminato il profilo della causale del delitto ascritto alla Franzoni, individuandola nel conflitto interiore determinato nella donna da difficoltà nella gestione dei figli e dalla comprovata preoccupazione per la salute di Samuele, manifestata anche nel periodo immediatamente precedente il fatto (v., in particolare, la deposizione della teste Vaccari), mentre la causa scatenante doveva essere ravvisata negli ostacoli frapposti da Samuele, sveglio, riottoso e piangente, al normale svolgimento di quanto programmato dalla madre.
Da ultimo, in punto di trattamento sanzionatorio, i giudici dei gravame ritenevano di concedere all’imputata le attenuanti generiche in ragione della sua sindrome ansiosa, pur non concretante vizio parziale di mente, dichiarandole, peraltro, solo equivalenti all’aggravante di cui all’art. 577, co. 1, c.p. in ragione della gravità del fatto e delle sue efferate modalità esecutive, sintomatiche di particolare intensità del dolo, pur definito “d’impeto”.
Motivi dei ricorso
Il difensore che ha assistito l’imputata nell’ultima fase del giudizio di appello ha proposto ricorso avverso la sentenza di secondo grado ed avverso una serie di ordinanze dibattimentali per i seguenti motivi, divisi per temi e così sintetizzabili, secondo l’ordine di esposizione adottato dal ricorrente:
Questioni preliminari
– illegittimità costituzionale dell’art. 585 c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. quanto alla mancata previsione della possibilità di proroga del termine per l’impugnazione in caso di sentenza complessa, con termine di deposito stabilito ai sensi dell’art. 544, co. 3, c.p.p., nella specie ulteriormente prorogato, ex art. 154, co. 4 bis, norme att. c.p.p., sino a complessivi 180 giorni;
– illegittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p. in riferimento agli arti. 1, 3, 24, 25, 101, 102 e 111 Cost. quanto alla previsione che il giudizio abbreviato si svolga davanti al G.U.P. anche per reati di competenza della corte d’assise, in tal modo derogandosi al principio di necessaria partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia e sottraendo il giudizio alla garanzia della collegialità dell’organo giudicante, con lesione dei principi costituzionali concernenti la competenza del “giudice naturale precostituito per legge” e del “giusto processo”;
nullità del giudizio di appello e della relativa sentenza per avere, sino all’udienza dei 20.11.2006, svolto il ministero di difensore dell’imputata l’avv. Carlo Taormina, iscritto sin dal 1° novembre 2004 nel registro degli indagati in relazione ad un procedimento parallelo e collegato al presente processo (c.d. “Cagne bis”) e, dunque, in evidente conflitto di interessi con la propria patrocinata, con violazione dell’art. 106 c.p.p., avendo, peraltro, il predetto legale reso, in detto procedimento, “dichiarazioni di segno negativo rispetto alla propria assistita”;
nullità del giudizio di appello e della relativa sentenza per violazione degli artt. 108 c.p.p., 24 e 111 Cost. nonché 6 C.E.D.U per la concessione al difensore di ufficio, subentrato all’avv. Taormina dopo la sua rinuncia al mandato, di un termine di soli 13 giorni per l’esame del fascicolo processuale (e, segnatamente, delle perizie e consulenze espletate sul tema della capacità di intendere e di volere della prevenuta, implicanti la conoscenza integrale del materiale acquisito), in vista dell’esame dibattimentale di periti e consulenti, a sua volta preceduto dall’affidamento di incarico peritale per la “ri-trascrizione” di conversazioni intercettate, oggetto di esame da parte di detti esperti.
Prova scientifica – parte prima
a) carenza e vizio di motivazione in ordine alla verifica della validità dell’innovativa tecnica scientifica di indagine denominata “Bloodstain Pattern Analysis” (B.P.A.), fondata sulle leggi di altre scienze (matematica, geometria, fisica, biologia e chimica), con cui sono state esaminate le macchie di sangue presenti sui reperti e rinvenute sulla scena del delitto (tecnica che non terrebbeconto della legge di gravità, per la quale il tragitto delle gocce di sangue non sarebbe mai rettilineo ma parabolico), con conseguente incertezza ed imprecisione dei pretesi elementi indizianti da essa desunti e violazione degli artt. 189 e 192 c.p.p.;
omessa menzione dei titoli di competenza specifica del perito designato, ex art. 221, co. 1, c.p.p., nonché dei protocolli e delle regole posti a fondamento della predetta tecnica, ovvero dei criteri che hanno condotto ad una valutazione di attendibilità della stessa e del metodo seguito, non solo in astratto ma con particolare riferimento al caso di specie ed alle sue variabili (di cui viene, peraltro, ammessa in sentenza l’attitudine ad influenzare il risultato, spostandolo dal piano della certezza a quello della mera possibilità);
violazione degli artt. 109 e 143, co. 2, c.p.p. in relazione all’omessa nomina di un perito di lingua tedesca (lingua madre del perito e del consulente di parte) per lo svolgimento delle predette operazioni peritali e per la traduzione in italiano “di ogni fase della perizia”, essendosi per il compimento di tali attività fatto ricorso alla lingua inglese;
d) omessa considerazione, in sede di perizia eseguita adottando il metodo della B.P.A., delle ferite subite dalla vittima, con particolare riguardo alla possibilità che il sangue ne sia zampillato sin dal primo colpo inferto per l’elevata pressione presente nelle arterie del capo, quale necessaria premessa all’applicazione del predetto metodo;
e) errore nella “applicazione della funzione di regressione lineare anziché esponenziale nel tragitto del sangue”, di cui a pag. 234 della sentenza, per omessa considerazione delle interrelazioni esistenti tra la tecnica in questione ed altre scienze e discipline e per l’effettuazione di valutazioni basate su premesse aprioristiche (posizione dell’aggressore, argomentata in base a ragionamenti di natura psicologica – v. pag. 247 dell’elaborato) o ad elementi non dimostrati (macchie “stimate” sul pavimento, non rilevabili dalle fotografie – v. pag. 208 della sentenza);
f) violazione degli artt. 228 e 230 in relazione all’art. 224, co. 2, c.p.p. quanto al rigetto, con ordinanza in data 12.12.2005, della richiesta di autorizzare l’accesso del C.T. della difesa all’abitazione teatro del delitto in occasione della rinnovazione della perizia fondata sulla B.P.A. (rigetto incongruamente giustificato con la sottoposizione dell’abitazione a sequestro nell’ambito del procedimento denominato “Cogne bis” ed all’esistenza di incidente probatorio ivi in corso, che non avrebbe, tuttavia, impedito l’accoglimento dell’istanza con le necessarie cautele e l’opportuno coordinamento con la diversa Autorità procedente, salvo disporre la sospensione dell’espletamento delle operazioni peritali);
g) erronea applicazione dell’art. 234 c.p.p. quanto all’ordinanza di rigetto della richiesta di acquisizione degli originali dei filmati menzionati dall’app. Paolino all’udienza dei 4.12.2006 e relativi ai primi sopraluoghi effettuati sul teatro del delitto, essendo le copie acquisite agli atti prive del “sonoro”, potenzialmente utile a chiarire punti rimasti oscuri circa le scelte operative della polizia giudiziaria, e meno leggibili anche quanto a nitidezza delle immagini;
h) erronea deduzione della posizione dell’aggressore (inginocchiato sul letto nella c.d. “void area”) dal presunto, ma non accertato, indossamento del pigiama della Franzoni da parte dell’autore del delitto;
i) contraddittorietà della motivazione secondo cui, ove i pantaloni del pigiama si fossero trovati sul piumone del letto, si sarebbe dovuta trovare “una configurazione a pioggia (delle macchie di sangue) anche nelle zone attorno alla void area, pur tenendo conto delle variazioni del tessuto” rispetto alla premessa per cui, in ragione delle dimensioni molto piccole delle gocce e del tipo di tessuto del pigiama “si sarebbero formate comunque macchie circolari in qualunque posizione e con qualunque angolo di impatto”, il che avrebbe autorizzato, come unica conclusione, la proposizione che le macchie sui pantaloni non potevano fornire alcuna utile informazione;
l) illogicità motivazionale e travisamento del fatto quanto all’accoglimento di considerazioni peritali sulle macchie di sangue “stimate” sul pavimento in assenza di prova certa dell’esistenza di dette macchie, solo ipotizzate dall’esperto (pag. 207 della sentenza); contraddittorietà motivazionale in punto di ritenuta certezza dell’indossamento dei pantaloni del pigiama per Ia presenza di macchie di sangue nelle zone inferiori posteriori dell’indumento in base alla solo possibile provenienza delle stesse dal brandeggio dell’arma impugnata dall’aggressore;
travisamento della prova in punto di svalutazione delle conclusioni del perito prof. Boccardo circa l’impossibilità di stabilire, in termini scientifici e di certezza, se i pantaloni del pigiama fossero indossati o meno;
o) vizio di motivazione circa le ragioni per cui la corte di secondo grado ha disatteso le conclusioni (meramente possibilistiche) dei periti Schmitter e Boccardo circa l’indossamento o meno della casacca del pigiama all’atto dell’aggressione, accogliendo, invece, quelle (espresse in termini di certezza) del R.I.S. di Parma, in relazione ad elementi (posizione della casacca ed esame della zona della stessa con adeso un piccolo frammento osseo) che non hanno, invece, influenzato le conclusioni peritali;
p) illogicità motivazionale circa la ritenuta idoneità della B.P.A. nell’esame delle macchie di sangue sul piumone nonostante le molteplici variabili incidenti sull’indagine (tipo di tessuto, natura ignota dell’arma del delitto, grado di violenza e numero dei colpi);
q) erroneità del metodo peritale fondato sulla “utilizzazione di valori medi anziché individuali, non calcolo della deviazione standard, regressione lineare anziché esponenziale”, ritenuta irrilevante per la minima differenza rilevabile tra i risultati cosi ottenuti e quelli derivanti dalla utilizzazione di “valori singoli”;
s) vizio di motivazione ed omessa acquisizione di prova decisiva quanto al rigetto dell’istanza di disporre perizia sulla traccia ematica presente sulla parte interna del piumone onde verificarne la possibile ascrivibilità all’impronta di una scarpa, secondo l’ipotesi formulata dal perito Schmitter ed avvalorata dalle considerazione del C.T. della difesa prof. Torre circa la prospettata identificabilità dell’arma del delitto in un “sabot” da montagna.
Prova scientifica — parte seconda
omessa verifica della validità scientifica dell’asseritamente falsa teoria della c.d. “reviviscenza”, fatta propria dal C.T. del P.M. prof. Viglino, assunta come premessa maggiore della motivazione sulla ricostruzione dell’ora della morte della vittima, secondo la quale i segni vitali (atti respiratori, gemiti, polso carotideo) descritti dai primi intervenuti sul posto (dottori Satragni e Iannizzi, teste Ferrod) dovrebbero interpretarsi come residue manifestazioni di vita meramente apparente anziché di vera e propria vitalità;
omessa considerazione da parte del prof. Viglino degli effetti e modalità di sanguinamento di lesioni a carico di arterie del capo ad elevata pressione sanguigna, incidenti sulla tipologia delle macchie da esso provocate;
violazione dell’art. 603, co. 3, c.p.p., travisamento della prova e vizio di motivazione quanto al rigetto, per la sua non assoluta necessità, della richiesta di audizione del C.T. della difesa prof. Torre sui molteplici temi medico-legali coinvolti nel giudizio, con particolare riguardo alle caratteristiche dell’arma del delitto, all’ora della morte ed al tempo di sopravvivenza della vittima, essenziale ai fini dell’esatta collocazione nel tempo dell’aggressione e della verifica dell’alibi dell’imputata per la sua assenza da casa in occasione dell’accompagnamento allo scuola-bus del figlio Davide.
Prova scientifica – parte terza
a) vizio di motivazione in punto di ritenuta esistenza di due macchie di sangue “da proiezione” sullo zoccolo sinistro marca “Fly Flot” della Franzoni, con conseguente deduzione del suo indossamento da parte di un aggressore inginocchiato sul letto in base a prove effettuate dal R.I.S. deponenti, peraltro, anche per una loro genesi “da calpestio”, incongruamente svalutata dalla corte di secondo grado, che illogicamente ha concluso per la loro formazione durante l’azione delittuosa, anche in base ai tempi di essiccamento del sangue, calcolati (per difetto) in 2 minuti o due minuti e mezzo;
b) vizio di motivazione e travisamento della prova costituita dalle risultanze della perizia Gosso acquisita dal processo “Cogne bis”, da cui emerge che macchie di sangue sono state calpestate durante i soccorsi alla vittima, donde la plausibilità dell’indossamento degli zoccoli da parte della Franzoni durante dette operazioni di soccorso, presentando le relative suole tracce di sangue, mentre tracce analoghe non sono state rinvenute sulla suola degli stivaletti neri che si pretenderebbero indossati dall’imputata nelle medesime circostanze di tempo (dato apoditticamente giustificato dalla corte con la cura asseritamente posta dalla donna nel non calpestare le macchie).
Prova scientifica in punto di accertamento dell’imputabilità
a) illegittimità, per incompatibilità del perito, ex art. 222, lett. d) ed e), dell’affidamento dell’incarico di provvedere alla ri-trascrizione delle conversazioni intercettate (ed utilizzate per la perizia psichiatrica) al medesimo soggetto che aveva già provveduto all’originaria trascrizione e che poteva, pertanto, esserne influenzato;
b) vizio di motivazione ed inutilizzabilità della perizia psichiatrica disposta nel giudizio di appello per la ritenuta lacunosità di quella disposta in primo grado ed espletata senza esame diretto della perizianda nonché per l’indebita consultazione di materiali non pertinenti quali trascrizioni di conversazioni, filmati e “fuori-onda” di trasmissioni televisive, con slittamento dell’incombente verso la perizia psicologica o sulla personalità dell’imputato, vietata dall’art. 220, co. 2, c.p.p., come dimostrato dalle prevalenti professionalità dei periti designati e dalla natura dei quesiti, estranei a criteri clinici e comprendenti profili attinenti al funzionamento mentale oltre che di criminogenesi e criminodinamica che, fisiologicamente, presuppongono la confessione dell’imputato o l’evidenza della prova di colpevolezza o, come asseritamente avvenuto nella specie, mirano all’acquisizione di elementi in tal senso, sull’esempio del criminal psychological profiling di derivazione statunitense (donde il giustificato rifiuto della Franzoni di sottoporsi all’esame, a tutela delle proprie prerogative di imputata, senza che, peraltro, la corte abbia ritenuto di ordinarne l’accompagnamento coattivo ai sensi dell’art. 132 c.p.p.);
c) inutilizzabilità, ex art. 220, co. 2, c.p.p., delle parti della perizia che trattano profili esclusivamente psicologici, come quelli relative al riferito meccanismo di “scissione-rimozione-negazione”, da cui si è desunto il ritardo ed il mendacio dell’imputata nel chiamare i soccorsi, nonchè al conflitto ed alla sindrome ansiosa per le condizioni fisiche del piccolo Samuele, da cui si è desunto un movente omicidiale altrimenti inconfigurabile, ed ai lapsus espressivi individuati in conversazioni intercettate ( con l’amica Anna Biancardi e con il marito), dai quali è stato dedotta l’ammissione inconscia (lapsus freudiani) o la traslazione sulla Ferrod del gesto criminoso da lei stessa compiuto (passi che avrebbero influenzato le valutazioni della corte di secondo grado, dettandole considerazioni non rientranti nella comune esperienza e nel bagaglio conoscitivo del giudice, come quelle relative alla “rapida capacità di ricomposizione dell’imputata rispetto a momenti di turbamento, con ripresa del funzionamento di base e delle capacità riorganizzative “, e poste a fondamento del ritenuto occultamento delle prove e della immediata elaborazione di una strategia difensiva);
d) vizio di motivazione per il ricorso a pretese regole o massime d’esperienza a sfondo psicologico, prive di basi razionali o scientifiche ed utilizzate per desumerne indizi di colpevolezza;
e) vizio motivazionale per travisamento della prova in punto di mancato accoglimento dei risultati della perizia psichiatrica espletata in grado di appello, concludente per il riconoscimento dell’esistenza nella Franzoni, al momento del fatto, di sindrome ansiosa in soggetto con assetto di personalità connotato da prevalenti componenti di tipo isterico ed instaurazione di “stato crepuscolare orientato di natura transeunte”, tale da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere e dleterminare amnesia di quanto compiuto in tale stato (amnesia che la corte ha, invece, ritenuto di escludere, analizzando la condotta della donna successiva al atto ed interpretandola come tentativo di depistare le indagini anziché come comportamento automatico non finalizzato ed espressione della stessa malattia).
Prova logica
a) violazione di legge e mancata assunzione di prova decisiva quanto alla reiezione della richiesta di audizione della teste dott.ssa Satragni, la cui necessità poteva essere valutata anche d’ufficio, al di là dei capitoli dedotti dall’istante, alla luce delle lacune, contraddizioni ed incertezze presentate dalle sue precedenti dichiarazioni su vari semi di prova, quale, ad esempio, il tipo di calzature indossate dalla Franzoni all’atto del proprio arrivo sul posto;
b) illogicità della motivazione e violazione dell’art.192 c.p.p. quanto alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della Satragni (ritenuta per altri versi poco lucida ed affidabile) sulla circostanza che la Franzoni indossasse stivaletti neri e non zoccoli durante la fase dei soccorsi;
c) illogicità della motivazione ie travisamento della prova quanto all’interpretazione di una traccia esterna alla casa in cui era stato rilevato il profilo genetico misto (seppure di non accertata natura ematica) di Samuele e dei padre e quanto all’esclusione, ii base a mere ipotesi e congetture, della natura ematica di due tracce inizialmente repertate dalla polizia giudiziaria sul marciapiede antistante l’ingresso principale dell’abitazione ma non analizzate e rimaste, pertanto, di natura ignota;
d) violazione di legge, travisamento del fatto e della prova quanto all’assunto dell’avvistabilità di un estraneo che si fosse avvicinato all’abitazione in assenza dell’imputata, potendosi, in base alle prove acquisite, affermare soltanto che i testi Vidi (autista dello scuolabus) e Travasa, transitata in quel torno di tempo sulla strada Cogne-Gimillan, non videro nessuno, mentre la Franzoni potrebbe non aver avvistato alcuno durante il tragitto di ritorno per essersi l’estraneo nascosto dietro la casa;
e) illogicità della motivazione in tema di interpretazione della sequenza e del contenuto (secondo la sentenza volutamente tardiva, riduttiva e mendace quella al 118 ) delle telefonate fatte dalla Franzoni al suo rientro in casa;
f) vizio motivazionale quanto all’attribuzione a comportamenti intenzionali dell’imputata delle circostanze, suscettibili di vaie spiegazioni, relative al rinvenimento della casacca del pigiama tra le lenzuola del letto e del mancato reperimento dell’arma del delitto;
g) travisamento della prova e del fatto quanto alla ritenuta certezza della circostanza che, nell’uscire di casa, la prevenuta (come costei avrebbe dichiarato inizialmente alla presenza dei soccorritori e poi smentito nelle dichiarazioni agli inquirenti) avesse chiuso la porta a chiave (porta risultata priva di segni di effrazione);
h) contraddittorietà dell’affermazione secondo cui solo l’imputata avrebbe avuto la possibilità e l’interesse di nascondere l’arma del delitto e di non dichiarare la mancanza di alcun oggetto dall’abitazione, posto che l’arma stessa non si sarebbe trovata neppure in caso di aggressore terzo che se ne fosse autonomamente e preventivamente munito, mentre la donna avrebbe avuto interesse a denunciare la scomparsa di qualche arnese;
i) omessa valutazione dell’ipotesi formulata dal C.T. della difesa prof. Torre circa la verosimile identificabilità di detta arma in un sabot e, per contro, implausibilità della sua individuazione in un arnese di rame, stante l’assenza di significato del minuscolo frammento di tale metallo rinvenuto in una sola delle numerose ferite della vittima;
– l) illogicità della motivazione in punto di interpretazione, in chiave psicologica, di taluni brani delle conversazioni intercettate in ragione di pretese, ma inesistenti regole, d’esperienza;
– m) violazione dell’art. 192, co, 2, c.p.p. in tema di valutazione complessiva della prova indiziaria, basata su fatti non certi (posizione dell’aggressore, indossamento da parte dello stesso del pigiama e degli zoccoli, occultamento della casacca, natura dell’arma, mendacio dell’imputata, ora della morte).
Trattamento sanzionatorio
mera apparenza della motivazione in punto di valutazione delle concesse attenuanti generiche in termini di semplice equivalenza all’aggravante, sulla base della sola natura del reato;
illogicità manifesta della motivazione in punto di determinazione della pena nel massimo edittale nonostante il grado minimale dell’intensità del dolo, qualificato come “d’impeto”, attribuito alla prevenuta.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente rilevato che, al suo esordio, l’atto d’impugnazione in esame, pur senza farne oggetto di uno specifico motivo di censura, sottolinea l’insolitamente ampia “attenzione mediatica” di cui il presente processo è stato fatto oggetto, segnalandone l’influenza sulla perizia psichiatrica disposta nel giudizio d’appello per l’uso, da parte dei periti, di materiali tratti da trasmissioni televisive svoltesi con la partecipazione dell’imputata.
Il tema verrà specificamente trattato nell’ambito del capitolo dedicato alla capacità di intendere e di volere della prevenuta al momento del fatto; la notazione difensiva offre, tuttavia, l’occasione di osservare che il segnalato interesse mediatico, in larga parte ricercato, propiziato ed utilizzato dalla stessa interessata, ha dato inusitato impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti, favorendo il massimo approfondimento di ogni aspetto del giudizio e dilatandone le dimensioni, nonostante l’opzione per il rito abbreviato, ben al di là di quelle di un normale giudizio celebrato con il rito ordinario.
L’interesse mediatico, spontaneo o scientemente indotto, non si è, dunque, mai risolto in un decremento delle facoltà difensive della Franzoni ma, piuttosto, nel suo contrario, ampliandone gli spazi di garanzia e favorendo in massimo grado, per l’esaustività delle indagini espletate, la formazione e maturazione del convincimento dei giudicanti.
Ciò premesso, le dedotte questioni di legittimità costituzionale sono entrambe manifestamente infondate.
La prima, concernente l’art. 585 c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., è, altresì, irrilevante in concreto, avendo, comunque, la difesa proposto, nel termine di legge, il proprio (peraltro ampio ed articolato) atto di ricorso, per cui l’eventuale accoglimento della proposta eccezione non potrebbe, comunque, sortire alcun effetto nel presente processo. La questione è, in ogni caso, manifestamente infondata, non potendo la comparazione essere istituita tra il termine (ordinatorio) accordato al giudice per il deposito della sentenza e quello (perentorio) accordato alla difesa per la proposizione dell’atto d’impugnazione ma, se del caso, tra eventuali (ed inesistenti) difformità dei termini assegnati alle diverse parti processuali, pubblica e private, solo in tale ambito potendosi, in astratto, prospettare una violazione del principio di eguaglianza, anche in relazione al disposto dell’art. 2, co. 1, n. 3) L. 16.2.1987, n. 81 (Delega per l’emanazione del vigente codice di procedura penale), secondo cui la parità va garantita tra le posizioni delle parti del processo (accusa e difesa) ed, ancor prima, alla previsione dell’art. 111 Cost., che sempre e soltanto alla posizione delle parti si riferisce nel sancire il rispetto del principio di parità.
Quanto, poi, alla prospettata violazione dell’art. 24 Cost., la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare l’insindacabilità delle scelte del legislatore nella concreta modulazione delle garanzie difensive, fatto salvo il limite della ragionevolezza della disciplina che, nella specie, non può ritenersi violato, attesa la congruità del termine di 45 giorni necessariamente stabilito in via generale dal codice di rito, essendo improponibile un suo adattamento in relazione alle peculiarità di ogni singolo processo (e ciò a prescindere dal rilievo che l’accoglimento della proposta questione di legittimità costituzionale comporterebbe un intervento additivo della Consulta estraneo alle sue attribuzioni in quanto non traducibile in una soluzione costituzionalmente obbligata, in materia essenzialmente riservata, pertanto, alle discrezionali valutazioni del legislatore).
La manifesta infondatezza dell’eccezione è, ulteriormente, desumibile dal rilievo che l’art. 585, co. 4, c.p.p. consente alle parti impugnanti di presentare, fino a 15 giorni prima dell’udienza, motivi nuovi, nei limiti segnati dall’art. 167 norme att. c.p.p. e puntualizzati dalla sentenza delle sezioni unite di questa corte 25.2.1998, Bono, in Foro. It., 1998, II, 450 (facoltà di cui la difesa ricorrente non si è, tuttavia, nella specie, avvalsa), nonché, senza limiti di tempo (v. art. 121, co. 1, c.p.p.), memorie o note d’udienza (quest’ultime effettivamente prodotte ed acquisite nella presente fase processuale, anche con l’aggiunta di talune produzioni documentali).
Del pari manifestamente infondata (oltre che, ancora una volta, irrilevante in quanto prospettata solo in questa sede anziché nella competente sede del giudizio di primo grado) è la seconda questione di legittimità costituzionale, relativa all’art. 438 c.p.p. in riferimento agli arti. 1, 3, 24, 25, 101, 102 e 111 Cost., relativamente all’attribuzione della competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato al giudice dell’udienza preliminare anche in caso di ordinaria competenza per materia della corte di assise.
Quanto alla pretesa violazione degli arti. I (co. 2), 101 (co. 1) e 102 (co. 3) Cost. per la sottrazione del giudizio abbreviato alla corte di assise, è sufficiente osservare che l’unica norma pertinente alla fattispecie deve, in realtà, ritenersi quella da ultimo citata che, peraltro, si limita a fissare una riserva assoluta di legge per la determinazione dei casi e delle forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia; ed è agevole replicare che, in materia, è, appunto, la legge ad aver determinato la competenza del G.U.P. alla celebrazione del giudizio abbreviato anche nei casi di competenza della corte d’assise per la celebrazione del giudizio ordinario.
Va, inoltre, considerato che la competenza assegnata in primo grado al G.U.P. è bilanciata dall’attribuzione della competenza per il giudizio di secondo grado alla corte d’assise d’appello, il che fa, comunque, salva l’esigenza di partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia nelle materie ordinariamente assegnate alla competenza di un giudice a composizione mista (di estrazione togata e popolare).
Nessuna violazione del principio di eguaglianza e, tanto meno, del principio dei “giusto processo” è, poi, invocabile nella fattispecie, attesa la diversa modulazione del giudizio abbreviato, fatta espressamente salva dall’art. 1 l 1, co. 5, Cost., rispetto al giudizio ordinario (dove la diversità della disciplina in punto di competenza è ragionevolmente giustificata dalla diversità del rito, con il connesso effetto premiale), mentre del tutto pretestuosa appare l’evocazione dell’art. 24 Cost., essendo l’opzione per il rito abbreviato fondata sulla libera scelta e, quindi, sul consenso dello stesso imputato, che non può, pertanto, lamentare la menomazione delle proprie garanzie difensive, avendovi scientemente dato causa in vista dei vantaggi conseguibili (e ciò a prescindere da quanto inizialmente rilevato circa le dimensioni e lo sviluppo in concreto assicurati al presente processo, nonostante il rito prescelto).
Inconfigurabile è, infine, la violazione del principio del “giudice naturale” di cui all’art. 25, co. 1, Cost., essendo l’attribuzione al G.U.P. della competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato stabilita in via generale dalla legge ed essendo, quindi, tale organo, in caso di libera scelta di detto rito da parte del giudicabile, “precostituito per legge” (ovvero prima del processo e con valenza estesa a tutti i casi consimili), alla medesima stregua di quanto avviene per la corte d’assise qualora l’interessato accetti, invece, di assoggettarsi al giudizio ordinario.
Ove dovesse ritenersi fondato l’assunto – espresso dalle ordinanze con le quali la Corte di assise di Napoli, in data 19.2.2007 (in G.U., I s.s., n. 3/2008) e 283.2007 (id., n. 5/2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p. in riferimento, tra l’altro, all’art 25 Cost. – secondo cui la violazione del principio del giudice naturale deriverebbe dal fatto che, dopo le modifiche subite dalla disciplina del giudizio abbreviato, con la sostanziale attribuzione all’imputato di un diritto potestativo di accesso a tale rito, l’imputato stesso resterebbe arbitro, attraverso la scelta del rito, anche della scelta del giudice competente, dovrebbe coerentemente ritenersi l’illegittimità costituzionale generalizzata dell’attribuzione della competenza per il giudizio abbreviato al giudice dell’udienza preliminare, posto che analogo risultato si verificherebbe in ogni caso e non solo in quello di reati di competenza ordinaria della corte d’assise.
Significativo è, del resto, che il giudice delle leggi, in caso del tutto assimilabile a quello in esame, abbia, con la sentenza n. 460/1994 (in Giur. costit.,1994, 3967), confermato la legittimità della scelta del legislatore di affidare comunque la celebrazione del giudizio abbreviato al giudice dell’udienza preliminare anche in ipotesi di ordinaria competenza di un giudice a composizione mista (in quel caso il tribunale militare), statuendo che la previsione di detta composizione “non rispecchia un contenuto normativo costituzionalmente vincolato”.
Ancor prima, con sentenza n. 305/1993 (in Cass. pen., 1993, 2777), la Corte costituzionale aveva, peraltro, positivamente scrutinato la legittimità dell’attribuzione ad un giudice monocratico, anziché collegiale, della competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato, affermandone la natura di giudice naturale precostituito per legge a prescindere dalla sua composizione, sul rilievo che detta competenza era istituita con norma di carattere generale.
Si procede, di seguito, all’esame delle diverse questioni processuali proposte con l’atto di ricorso, includendo in tale sezione della trattazione anche quelle, sempre di natura processuale, svolte dal ricorrente in altra sede dell’atto di impugnazione.
1) – Eccezione di nullità del giudizio e della sentenza di appello per incompatibilità dell’avv. Taormina.
L’evocata violazione dell’art. 106 non sussiste. Nessuna delle disposizioni dell’articolo citato si attaglia alla presente fattispecie, non avendo il predetto legale assunto la difesa di più imputati in posizioni tra loro incompatibili né la difesa di altro imputato che abbia reso, nello stesso procedimento od in un procedimento connesso (nel caso in esame il procedimento denominato “Cogne bis”), dichiarazioni concernenti la responsabilità della Franzoni.
Non pertinente risulta, altresì, il richiamo alle statuizioni di cui all’ordinanza della Corte costituzionale 28.12.1995, n. 522, Ciarallo, in Cass. pen., 1996, 1369, non essendo, in concreto, ravvisabile, né essendo stata rappresentata, un’effettiva situazione di conflitto di interessi tra il professionista indagato e la propria patrocinata: il ricorrente si é, invero, limitato a dedurre, del tutto genericamente, che l’avv. Taormina avrebbe, nel procedimento connesso, reso “dichiarazioni di segno negativo rispetto alla propria assistita”, senza, peraltro, indicarne minimamente natura e contenuto, mentre non constano elementi da cui dedurre che il legale abbia autonomamente assunto, con il dissenso dell’imputata, le iniziative che hanno determinato l’avvio del procedimento connesso o collegato.
La giurisprudenza di questa corte ha, del resto, avuto modo di affermare che l’incompatibilità contemplata dall’art. 106 cit. sussiste in presenza di un’interdipendenza di posizioni processuali per le quali un imputato abbia interesse a sostenere una tesi che risulti pregiudizievole per l’altro imputato e solo ove la versione di un soggetto sia assolutamente incompatibile con la versione dell’altro, in modo da determinare un contrasto radicale ed insuperabile, tale da imporre al primo una linea difensiva logicamente inconciliabile con la difesa del secondo (v. Cass., sez. H, 19.1.2006, Bagnasco, in Ced Cass., rv. 233497 e sez. II, 23.9.2005, Carciati, id., rv. 232522), il che non risulta minimamente nella presente vicenda, in cui ogni determinazione doveva, dunque, ritenersi interamente rimessa alle valutazioni di opportunità dell’imputata circa la conferma del mandato difensivo od a quelle del difensore, afferenti la deontologia professionale, circa il mantenimento dell’incarico.
Nella specie l’inesistenza di situazioni di conflitto di interessi tra l’avv. Taormina e l’imputata risulta, dei resto, dimostrata anche dalla circostanza che il nuovo difensore ha fatto propria gran parte delle argomentazioni del precedente patrocinatore, seguendone e coltivandone l’impostazione di fondo.
Va, infine, rilevato che la nullità derivante dall’inosservanza delle disposizioni
dell’art. 106 sarebbe, comunque, classificabile come d’ordine generale a regime
intermedio in quanto riconducibile alla previsione dell’art. 178, lett. c), c.p.p., con il suo conseguente assoggettamento al regime di cui all’art. 182, co. 2, c.p.p. (v., in tal senso, Cass., sez. 1, 7.6.2005, Perkeci, CED Cass., rv. 232123, quanto alla nullità derivante dalla violazione dell’art. 106, co. 4 bis, c.p.p., la cui sussistenza è stata, tuttavia, recentemente esclusa, dalle sezioni unite di questa corte con sentenza 22 febbraio 2007, Dike, id., rv. 236373 quanto alle dichiarazioni rese a carico di altro imputato da più imputati difesi da un unico difensore), per cui essa avrebbe dovuto essere immediatamente dedotta dal nuovo difensore dell’imputata nel corso dello stesso giudizio di appello.
2) — Eccezione di nullità del giudizio e della sentenza di appello per violazione degli artt. 108 c.p.p. nonché 24 e 111 Cost. relativamente all’asserita inadeguatezza del termine a difesa concesso al difensore d’ufficio subentrato all’avv. Taormina.
La violazione dell’art. 108 c.p.p. non sussiste. La norma si limita a prescrivere la congruità del termine, fissandone il minimo in 7 giorni. Nel caso in esame tale minimo é stato rispettato, essendo stato concesso al nuovo difensore un termine di 13 giorni, mentre la valutazione della sua congruità rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito ed è sindacabile in questa sede unicamente in caso di motivazione palesemente illogica ed irragionevole.
Nella specie, tuttavia, il giudice del gravame ha argomentato in modo esente da censure di tal genere, rilevando che il termine accordato, pressoché pari al doppio del minimo, era essenzialmente funzionale ad un unico e circoscritto incombente, costituito dall’esame dei periti autori della perizia psichiatrica, mentre il giudizio si è protratto per altri cinque mesi, donde la possibilità del nuovo difensore di compiutamente esaminare ed assimilare l’intero materiale processuale.
Del tutto ragionevolmente la corte ha, inoltre, precisato che il neo-difensore avrebbe potuto, per il predetto, circoscritto incombente processuale, interpellare i consulenti tecnici della difesa nella specifica materia, il cui mandato era stato confermato. In questa sede può aggiungersi che il nuovo difensore avrebbe potuto contare anche su analogo dovere di collaborazione del difensore rinunciante, atteso che, a norma dell’art. 107, co. 3, c.p.p., la rinuncia al mandato non ha effetto finché non sia decorso il concesso termine a difesa.
Non è, dunque, configurabile, sul punto, alcuna apprezzabile lesione del diritto di difesa e dei principi del “giusto processo”.
Anche in questo caso deve, inoltre, rilevarsi che la pretesa nullità, del pari riconducibile alla previsione dell’art. 178, lett. c), c.p.p. e classificabile come d’ordine generale a regime intermedio, avrebbe dovuto, ex art. 182, co. 2, c.p.p., avendovi la parte assistito, essere dedotta immediatamente all’udienza del 20.11.2006, nella quale il termine in questione era stato fissato, mentre la congruità dello stesso risulta in qualche modo messa in discussione — ma non confutata con una formale eccezione – solo con successiva istanza di proroga in data 25.11.2006 (v., in senso conforme, Cass., sez. II, 4.5.2005, Moro, in Arch. nuova proc. pen., 2005, 593, relativa a fattispecie di diniego del termine, cui deve ritenersi perfettamente assimilabile quella di concessione di termine ritenuto incongruo).
3)– Eccepita violazione degli artt. 109 e 143 c.p.p. per omessa nomina di un interprete-traduttore di lingua tedesca anziché in lingua inglese per lo svolgimento delle operazioni peritali affidate al dott. Schmitter e per la traduzione del relativo elaborato.
L’eccezione è infondata. Le norme invocate non precludevano al perito, peraltro in pieno accordo con il consulente della difesa, di far uso, per il compimento delle operazioni e la redazione della relazione peritale, di una lingua diversa dalla propria lingua-madre (nella specie di una lingua che sia il perito che il consulente avevano asserito di conoscere ed avevano convenzionalmente stabilito di usare, anche in considerazione del fatto che la letteratura scientifica sullo specifico tema oggetto di prova è, prevalentemente, di matrice anglosassone e, pertanto, in lingua inglese).
Le disposizioni richiamate, e segnatamente l’art. 142, co. 2, c.p.p., si limitano, invero, a prescrivere che il magistrato, anche se personalmente a conoscenza della lingua straniera, nomini un interprete per la traduzione in italiano (lingua del processo, ex art. 109, co. 1) di atti scritti in diversa lingua, il che è puntualmente avvenuto nella specie; né possono in questa sede prendersi in esame le asserite difficoltà di comprensione od espressione del perito rappresentate nelle memorie difensive prodotte all’odierna udienza, trattandosi, palesemente, di deduzioni relative a questioni di merito non fatte valere con l’atto di appello né, per la verità, con l’atto di ricorso.
4)- Eccepita violazione degli artt. 228 e 230 in riferimento all’art. 224, co. 2, c.p.p. relativamente ad ordinanza di rigetto in data 12.12.2005 dell’istanza di autorizzare il C.T. della difesa ad accedere all’abitazione teatro del delitto.
L’eccezione non ha pregio. L’istanza in questione fu formulata in occasione di un supplemento peritale da compiere su filmati e documenti fotografici, riproducenti macchie esistenti sul pavimento a suo tempo non repertate né esaminate, né risulta che il C.T. della difesa fosse stato nominato dopo l’esaurimento delle operazioni peritali (unica ipotesi in cui l’art. 230, co. 2, c.p.p. prevede la possibilità che il consulente chieda al giudice di essere autorizzato ad esaminare la persona, la cosa ed il luogo oggetto della perizia: oggetto, peraltro, costituito, nella specie, dall’esame delle predette fotografia, cui il consulente avrebbe potuto liberamente partecipare senza bisogno di alcuna autorizzazione); e ciò a prescindere dal fatto che i consulenti della difesa avevano già partecipato a precedenti sopraluoghi ed avevano compiuto già altri accessi sul teatro del crimine nonché dall’ulteriore rilievo che – circostanza dimenticata o rimossa per l’impropria dilatazione subita dal processo – trattavasi pur sempre di un giudizio abbreviato, già avvalsosi di un’inusitatamente ampia rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello.
5)- Eccepita violazione dell’art. 234 c.p.p. quanto al rigetto dell’istanza di acquisizione degli originali dei filmati menzionati dall’appuntato Paolino all’udienza dei 4.12.2006.
Anche tale eccezione é infondata. Nuovamente richiamate, anche a questo proposito, la natura “speciale” del rito prescelto, comportante una fisiologica limitazione dell’iter processuale, tanto più nel giudizio di secondo grado (in cui anche in via ordinaria del tutto eccezionale è la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale), va, comunque, rilevato che l’istanza aveva scopi meramente esplorativi, non risultando contestata la leggibilità ed integrità delle copie acquisite ed essendo meramente congetturale l’ipotesi che il sonoro dei filmati (qualificato dagli operanti come meramente strumentale e funzionale allo svolgimento delle attività di ripresa) potesse risultare utile ad illuminare le scelte operative della polizia giudiziaria, il cui risultato era, comunque, oggettivamente acquisito agli atti.
Nessuna causa di nullità potrebbe, peraltro, derivare dalla menzionata decisione discrezionale della corte di merito, correttamente e logicamente motivata.
6)- Eccepita incompatibilità del perito incaricato della ri-trascrizione di conversazioni intercettate, avendo questi già provveduto alloriginaria trascrizione.
Avverso la nomina del perito in questione venne proposta eccezione di incompatibilità, ex art. 222, lett. d) ed e), c.p.p.; nessuna delle evocate cause di incompatibilità è, peraltro, ravvisabile nella specie, non versando il soggetto in questione in alcuna delle situazioni ivi menzionate e dovendosi la possibilità di una nuova designazione del medesimo perito precedentemente officiato logicamente trarre dalla stessa previsione dell’art. 221, co. 1, ult. periodo, invocato dal ricorrente, posto che la nomina di un diverso soggetto è suggerita, ma non imposta, dalla legge unicamente ove possibile e nel solo caso di nullità della perizia originaria, donde l’evidente assenza di un qualsiasi radicale divieto di nuova nomina dello stesso perito anche nella particolare ipotesi da ultimo citata, certamente non assimilabile a quella, ricorrente nel caso di specie, di una semplice ripetizione delle operazioni, ad integrazione e chiarimento di quelle già espletate.
La sentenza impugnata ha anche opportunamente rilevato la particolare natura delle operazioni peritali di trascrizione del contenuto di fonoregistrazioni, sostanziantisi in attività di mero ascolto e riproduzione in forma grafica di quanto percepito e non implicanti la formulazione di giudizi o valutazioni di sorta (v., in senso conforme, Cass., sez. V, 5.2.2002, Bello, Ced Cass., rv. 221897 e, di recente, sez. I, 20.2/6.3.2007, Grande Aracri, non massimata sotto tale profilo), donde 1’implausibilità di condizionamenti derivanti dall’esito del pregresso incarico.
Passando all’esame dei denunciati vizi di motivazione in punto di attribuzione all’imputata del gesto omicidiale e partendo dall’ultima, conclusiva censura con cui si lamenta la violazione dei canoni che devono presiedere alla valutazione della prova indiziaria, nella specie asseritamente basata su dati fattuali incerti, occorre far precedere la disamina dei singoli profili di doglianza da una premessa metodologica.
Va, infatti, chiarito che il requisito della certezza che deve assistere gli elementi indizianti (requisito non espressamente enunciato dall’art. 192, co. 2, c.p.p. ma postulato come indefettibile dalla giurisprudenza consolidata ed intrinsecamente connesso alla sistematica della prova indiziaria, attraverso cui, con procedimenti di logica formale, si perviene alla dimostrazione del tema di prova – fatto ignoto – partendo da un fatto noto – e, dunque, accertato come vero) non può assumersi in termini di assolutezza e di verità in senso ontologico; la certezza del dato indiziante é, infatti, pur sempre una certezza di natura processuale e partecipa di quella specie di certezza che si forma nel processo attraverso il procedimento probatorio per cui, ad esempio, un certo accadimento (fatto naturale o comportamento umano) descritto da uno o più testimoni potrà dirsi certo e, quindi, conforme a verità, una volta che, previo controllo dell’attendibilità dei dichiaranti ed attraverso il vaglio critico delle loro deposizioni, il giudice ritenga quel dato accadimento dimostrato e, dunque, processualmente acquisito.
Similmente, un risultato di prova fondato sull’applicazione di leggi, metodi o tecniche di natura scientifica potrà dirsi certo una volta che il giudicante abbia verificato l’affidabilità di quella legge, tecnica o metodica ed abbia dato ragione della valenza ed attendibilità del risultato conseguito.
È, inoltre, nozione acquisita che per passare dal fatto noto (ovvero probatoriamente accertato) a quello ignoto (thema probandum), il giudice fa, piú o meno consapevolmente, uso di particolari “regole-ponte”, tale da consentirgli di mettere in relazione i due fatti e di risalire da quello noto a quello ignoto; tale mediazione può essere assicurata da una c.d. “regola di esperienza”, legittimata dal patrimonio conoscitivo derivante dal senso comune e ricavata dall’osservazione ripetuta di casi simili, denotanti la costante ripetizione di un certo fenomeno in presenza di determinate condizioni, ovvero da una legge scientifica, di valenza universale o semplicemente statistica, od, ancora, da una legge appartenente alla logica, che presiede ed orienta i percorsi mentali della razionalità umana.
Il ragionamento probatorio che consente di passare dall’elemento di prova al risultato di prova rientra nella competenza del giudice di merito, che deve, ovviamente, fornirne congrua motivazione e che, in tema di prova indiziaria, deve procedere ad un duplice vaglio giustificativo: un primo vaglio attinente alla c.d. “giustificazione esterna”, attraverso la quale il giudice deve saggiare la validità della regola d’esperienza ovvero della legge scientifica o logica utilizzata, ed un secondo vaglio concernente la c.d. “giustificazione interna”, mediante la quale occorre dimostrare, in concreto, la validità del risultato conseguito mediante l’applicazione della “regola-ponte”.
Il compito del giudice di legittimità, cui non appartiene un autonomo potere di valutazione degli elementi di prova né il potere di sostituire i propri apprezzamenti in materia a quelli del giudice di merito o di adottare regole d’esperienza diverse da quelle adottate da detto giudice, è unicamente quello di controllare la logicità del ragionamento probatorio, verificando sia la correttezza della giustificazione esterna che di quella interna, essendo la ricostruzione della vicenda processuale e l’interpretazione dei dati acquisiti di esclusiva spettanza dei giudici delle precedenti istanze.
Questo, sia pur sintetico e sommario, excursus metodologico serve a fissare, essenzialmente a beneficio degli eventuali lettori atecnici della presente sentenza – cui il prodotto giurisdizionale è, in ultima analisi, destinato – la linea di confine tra il giudizio di cognizione di merito e quello proprio della corte di cassazione, che non può procedere ad un terzo grado di giudizio “pieno” né ad una rivalutazione delle prove, ma deve circoscrivere il proprio sindacato in materia alla completezza, logicità e coerenza delle valutazioni al riguardo compiute dai giudici di primo e secondo grado nonché dell’apparato motivazionale con cui quelle valutazioni sono state giustificate, senza potersi ad essi sostituire.
Ciò premesso, possono affrontarsi le singole censure formulate dal difensore ricorrente, iniziando da quelle attinenti alla valutazione della prova scientifica.
Relativamente al dedotto vizio di motivazione in ordine alla verifica della validità della tecnica di indagine (B.P.A.) sulle macchie ematiche rinvenute sul pigiama della prevenuta e sul piumone del letto, la corte territoriale ha, anzitutto, chiarito che essa non si basa su leggi scientifiche nuove od autonome bensì sull’applicazione di quelle, ampiamente collaudate da risalente esperienza, proprie di altre scienze (matematica, geometria, fisica, biologia e chimica) che, in quanto universalmente riconosciute ed applicate, non richiedono specifici vagli di affidabilità.
Relativamente innovativo, ma solo per il nostro paese e per la nostra pratica giudiziaria, risulta, invece, il metodo, essenzialmente combinatorio, in base ad esse costruito, ma deve escludersi che i giudici del gravame (come, ancor prima, il G.U.P.) abbiano omesso di motivare circa la sua riconosciuta validità scientifica e pratica, avendo a tale tema la sentenza, in modo ampio ed esauriente, dedicato le pagg. 183 ss., con specificazione dell’ormai sperimentata ed abituale prassi applicativa di detto metodo nei paesi anglosassoni ed in Germania, con indicazione della letteratura sull’argomento nonchè analitica disamina e confutazione dei numerosi rilievi dei consulenti tecnici di tutte le parti, snz. pretermettere di considerare le possibili variabili in grado di influenzare il risultato di priva, con particolare riguardo (pagg. 190 ss.) all’applicazione della B.P.A. nello specifico caso in esame, in tal modo sostanzialmente rispettando anche i rigorosi criteri di validazione della prova scientifica (aventi per l’A.G. italiano natura meramente orientativa) elaborati dalla giurisprudenza degli U.S.A. e richiamati nelle acquisite note di udienza; né può esigersi, per quanto già premesso, che questa corte proceda a nuova ed autonoma rivalutazione al riguardo, non ravvisandosi alcuna lacuna né incongruenza nell’iter giustificativo sottoposto a sindacato, neppure sotto il profilo segnalato a pag. 53 del ricorso, e sintetizzato sotto la lettera i) delle censure dedicate alla “Prova scientifica — parte prima”, non essendo la constatata morfologia rotondeggiante delle gocce di sangue sui pantaloni del pigiama equivalente od omologabile al rilievo della loro distribuzione “a pioggia”.
Nessun riscontro trova, in particolare, l’affermazione secondo cui la tecnica in esame non terrebbe conto della legge di gravità, considerando il tragitto delle macchie di sangue sempre rettilineo anziché parabolico, rinvenendosi, invece, nell’elaborato giudiziale, sempre sulla scorta delle indicazioni peritali, numerose dimostrazioni del contrario in ragione dei frequenti riferimenti al percorso parabolico od ellittico degli schizzi ematici ed all’andamento curvilineo delle proiezioni di sangue, con tratti di curva ascendente e discendente (vedi pagg. 67, 68, 72, 76, 185,186, 194, 209).
Il provvedimento ha, altresì, evidenziato (v. pagg. 67, 72, 77 e 196) come il perito abbia correttamente impostato la propria indagine secondo le regole della “BPA”, muovendo dalla valutazione dei dati costituiti dagli elementi fissi individuabili nella stanza (testiera del letto, retrostante muro, soffitto), solo successivamente confrontandoli con quelli mobili.
Del pari la sentenza incensurabilmente argomenta circa la “particolare competenza nella specifica disciplina” (v art. 221, co. 1, c.p.p.) riconosciuta al perito dott. Schmitter e circa le sue comprovate referenze, fornendo adeguata giustificazione dei criteri seguiti per la nomina, immuni da ogni rilievo in questa sede, anche perché nessuna riserva risulta formulata in occasione della sua designazione.
L’elaborato giudiziale (pag. 190) precisa, inoltre, che il perito d’ufficio ed i consulenti di parte hanno discusso e concordato i protocolli da adottare per le indagini in questione, dal che si trae (come la sentenza in più punti rileva) che i consulenti della difesa riconobbero la validità del metodo in questione; nè poteva pretendersi che, un volta doverosamente verificato l’accreditamento della E.P.A. in sede scientifica e nella prassi investigativa, i giudici di merito procedessero anche personalmente a testare quei protocolli, postulanti il possesso di cognizioni specialistiche di cui gli organi giudiziari sono fisiologicamente privi, tanto da imporre
il ricorso a tecnici della materia per l’impossibilità dello stesso giudice di atteggiarsi a perito.
Sulla base dei risultati della perizia, minuziosamente ed analiticamente valutati alla luce di tutte le obiezioni e riserve dei consulenti della difesa, i giudici di appello sono pervenuti alla conclusione, in ciò condividendo l’opinione del primo giudice, che l’indagine effettuata con impiego della BPA avesse consentito di acquisire la certezza processuale (risultato di prova) della circostanza che l’assassino sicuramente indossasse, durante l’esecuzione dell’azione omicidiale, i pantaloni del pigiama appartenente alla Franzoni.
Sottoposti a rigorosa disamina gli esiti delle indagini espletate sul medesimo tema dai tecnici del R.I.S., la corte territoriale, superando le riserve espresse al riguardo dal perito, ha ritenuto, altresì, provato, con dovizia di logici argomenti che è qui superfluo richiamare, che l’aggressore indossasse, nella circostanza, anche la casacca del medesimo pigiama.
Tali approdi, in ragione di quanto precisato in precedenza, costituiscono, allo stato, altrettanti dati fattuali ineludibili per la corte di legittimità, in quanto congruamente e correttamente accertati in sede di cognizione e, pertanto, da assumere come veri ai fini del giudizio su cui articolare il ragionamento probatorio inc’iziario.
Analogamente deve concludersi, per gli stessi motivi, quanto al risultato ii prova costituito dalla circostanza che l’omicida indossasse anche gli zoccoli marca “Fly Flot” della Franzoni, posto che, se può ragionevolmente sostenersi, in base alle stesse conclusioni delle indagini del R.I.S., che i due schizzi, definiti da proiezione, individuati sulla suola dello zoccolo sinistro potrebbero essersi prodotti anche calpestando le macchie di sangue esistenti sul pavimento, è, tuttavia, stato acquisito come certo che le contaminazioni ematiche da calpestio esistenti sotto le suole si sono formate nell’immediatezza del gesto criminoso, quando dette macchie erano ancora fresche e non si era verificato il loro essiccamento.
Avendo i giudici di merito motivatamente ed insindacabilmente escluso, in base alla deposizione della teste Satragni (ma anche della teste Ferroci e del teste Savin), che l’imputata indossasse gli zoccoli all’atto dei soccorsi prestati alla vittima, l’unica ipotesi residuale possibile è stata coerentemente ritenuta quella che dette calzature fossero indossate in occasione dell’esecuzione dell’omicidio, avendo poi l’esecutore avuta l’accortezza di togliersele dai piedi nel tragitto compiuto per raggiungere il piano superiore, lungo il quale non furono rinvenute a terra tracce ematiche, sino alla loro ordinata collocazione nell’antibagno, dove furono da ultimo rinvenute, dopo una loro prima sistemazione nello stesso bagno, sempre per quanto ritenuto accertato sulla base della deposizione della teste Satragni.
Infondata è anche la doglianza relativa alla mancata considerazione dell’eventualità che il sangue possa essere zampillato dalle ferite inferte al bimbo fin dal primo colpo per l’elevata pressione presente nelle arterie del capo, avendo l’argomento costituito oggetto di particolare disamina ed essendosi rilevato che anche il consulente della difesa aveva finito per ammettere che il primo colpo non potesse provocare detto zampillio, così come doveva, in generale, escludersi che le ferite avessero potuto produrre schizzi di sangue in modo autonomo, asseritamente ad oltre un metro e mezzo ed addirittura sino a quattro metri di distanza, avendo il prof Viglino puntualizzato (pagg. 192 e 193) che le ferite inferte furono tali da determinare una imponente e rapida emorragia, con irrefrenabile scolo di sangue e possibili proiezioni dello stesso a distanze dell’ordine di appena qualche centimetro.
Del pari congruamente argomentata è la conclusione circa la posizione dell’aggressore, non fondata su premesse aprioristiche e di natura psicologica (del tutto marginale ed irrilevante risultando il cenno alla riferibilità di quella posizione ad un tipico atteggiamento materno) ma su precisi dati oggettivi, costituiti dalle caratteristiche e dimensioni della void area sul piumone e dalle tracce di ca.q off sul soffitto della stanza.
Relativamente alla presenza di macchie di sangue sul pavimento, la sentenza precisa (v. f. 207 ss.) che la loro esistenza non fu astrattamente ‘`stimata” dal perito ma concretamente rilevata, per quanto possibile, da alcune delle fotografie acquisite e che il loro esame portava ad escludere la presenza dei pantaloni del pigiama a terra (circostanza, del resto, inconfutabilmente esclusa dalla stessa imputata, che ha sempre sostenuto di aver gettato disordinatamente sia i pantaloni che la casacca sul letto), imponendo come unica possibile soluzione una loro posizione più o meno verticale al momento del fatto, senza che possano individuarsi al riguardo reali contraddizioni motivazionali, al di là di quella, meramente lessicale, rilevata, con analisi testuale piuttosto che logica, dal ricorrente attraverso la giustapposizione dei lemmi “certezza” e “possibilità”.
La corte di merito non ha, poi, mancato di rilevare (pag. 243) della piena -risolutezza delle conclusioni del perito prof. Boccardo circa l’indossamento o meno dei pantaloni del pigiama da parte dell’aggressore trova giustificazione nella dichiarata mancanza di esperienza del predetto in ordine al metodo della B.P.A., vertendo essenzialmente su altro oggetto il campo di indagine al medesimo affidato.
Anche in ordine all’eccepita erroneità dell’utilizzazione peritale di “valori medi anziché individuali”, di mancato calcolo della “deviazione standcrd” e di ricorso alla “regressione lineare anziché esponenziale”, la sentenza ha adeguatamente dimostrato che la differenza tra il risultato ottenuto dal perito d’ufficio e quello diversamente conseguito dal C.T. della difesa Brinkmann risulta, comunque, di minima entità e non tale da influenzare le conclusioni raggiunte.
Incensurabilmente motivata è, altresì, la reiezione della richiesta di disporre nuovo e specifico accertamento peritale sulla traccia ematica presente sulla parte interna del piumone onde verificare l’eventualità della sua riconducibilità ad un “sabot”, attesa la natura meramente congetturale dell’ipotesi formulata dal consulente della difesa Torre circa l’identificabilità dell’arma del delitto in un oggetto del genere, ragionevolmente esclusa in base al rilievo, su cui anche i consulenti della difesa hanno convenuto, che l’arma dovesse consistere in un oggetto agevolmente impugnabile e dotato di manico di una certa lunghezza onde consentirne il brandeggio e giustificare gli schizzi di sangue dallo stesso lasciati sul soffitto della stanza (ne si dimentichi, ancora una volta, che trattasi pur sempre di giudizio di appello conseguente a giudizio abbreviato, diffusosi oltre ogni fisiologica misura e non dilatabile senza limiti).
Quanto alla corretta classificazione dell’indagine fondata sulla B.P.A. ed alla prospettazione, peraltro avanzata solo con le note di udienza depositate al termine della discussione innanzi a questa corte, della sua ascrivibilità al novero delle “prove non disciplinate dalla legge, ovvero “atipiche”, di cui all’art. 189 c.p.p., non sembra revocabile in dubbio la riconducibilità della stessa al genus della perizia: la peculiarità dell’oggetto degli accertamenti non può, invero, confondersi con l’atipicità del mezzo di prova, essendosi trattato di attività rientrante a tutti gli effetti nell’ambito dell’art. 220 c.p.p., a norma del quale il giudice dispone la perizia “quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”.
Non essendo il possibile oggetto della perizia circoscritto, predeterminato o tipizzato dalla legge (salvi taluni casi espressamente previsti, come le perizie psichiatrica e nummaria) e potendo, quindi, l’indagine riguardare i più diversi campi e discipline, la natura particolare ed inconsueta degli accertamenti non vale a determinarne la traslazione al novero delle prove “atipiche” quali, ad esempio, devono considerarsi, secondo la giurisprudenza, le riprese visive o videoregistrazioni: non é, pertanto, invocabile, nella specie, il disposto dell’ultimo periodo dell’art. 189, secondo cui l’ammissione delle prove non disciplinate dalla legge deve essere preceduta dall’audizione delle parti sulle modalità della loro assunzione (e ciò a prescindere dal rilievo che la sua inosservanza, in ipotesi riconducibile alle nullità d’ordine generale di cui all’art. 178, lett. c), c.p.p., non ha formato oggetto di alcuna tempestiva deduzione).
Passando al capitolo relativo alla determinazione dell’ora della morte della vittima, strettamente connessa a quella, ben più rilevante, dell’individuazione dell’ora del delitto in relazione all’intervallo, stimato tra i 5 ed i 17 minuti, intercorso tra l’aggressione ed il decesso, la sentenza precisa che il perito prof. Viglino non ha potuto rispondere sul punto per mancanza di idonei dati tanatologici; non avendo egli partecipato alle operazioni di soccorso della vittima, il predetto non ha neppure potuto constatare personalmente i segni di vitalità descritti dai primi soccorritori ed ha, comunque, ricondotto gli stessi al fenomeno della “reviviscenza”, caratterizzato da manifestazioni di vita meramente apparente, donde la conclusione, suffragata da riferimenti clinici obbiettivi (assenza di sangue nei polmoni e di riflesso cro-faringeo all’introduzione della cannula di Guedel nonché di riflessi neurologici), che il bimbo fosse ormai clinicamente morto.
Considerata, peraltro, l’approssimazione della stima dell’intervallo temporale tra consumazione dell’aggressione e decesso e pur tenendo conto dei rilievi critici della difesa circa la teoria della “reviviscenza” (la sentenza chiarisce, peraltro, a pag. 172, come anche il prof. Viglino, al pari del difensore ricorrente, abbia posto in relazione il verificarsi dei sintomi di c.d. “reviviscenza” con manipolazioni del corpo dei bambino e con il compimento di manovre rianimatorie), resta acquisito (ed incontestato) che l’unico spazio di tempo in cui l’omicidio potrebbe essere stato commesso da un terzo estraneo è quello costituito dai pochi minuti (variabili tra i 5 e gli otto) in cui la Franzoni si assente) per accompagnare il figlio Davide alla fermata dello scuola-bus (spazio, come si é visto, ulteriormente e sensiòilmente riducibile perché l’ipotetico estraneo potesse raggiungere l’abitazione ed allontanarsene senza essere avvistato dalla prevenuta). Avendo, tuttavia, i giudici di merito assunto per certo che l’aggressore indossava il pigiama e gli zoccoli della Franzoni, gli stessi hanno, conseguentemente, escluso che quel già ridottissimo margine di tempo potesse consentire ad un terzo di penetrare nell’abitazione, localizzare la vittima (che non si trovava nel suo lettino), indossare il pigiama dopo essersi spogliato dei propri abiti, dismettere lo stesso, rivestirsi ed allontanarsi dopo aver rimesso a posto gli zoccoli, senza lasciare, come oggettivamente accertato, alcuna traccia (di calpestio od altre) sul percorso di fuga, tanto in direzione della porta di ingresso sita al piano superiore che in direzione del garage. In particolare, quanto alle macchie contrassegnate con le lettere I ed L, localizzate all’esterno, i:3 prossimità dell’ingresso dell’abitazione, l’esclusione della loro natura ematica trova adeguata giustificazione (v. pag. 326 s.) nel rilievo che gli accertamenti del R.I.S. condussero a tale conclusione e nell’ ulteriore rilievo che esse non furono notate e prese in considerazione neppure dal C.T. della difesa prof. Torre nel sopraluogo del 6.2.2002, sebbene le stesse fossero state fotografate dai carabinieri e fatte constare sin dal sopraluogo del 30.1.2002.
Attesa, dunque, l’impossibilità di stabilire, con sufficiente precisione, l’ora della morte, viene meno anche la possibilità di sostenere che l’omicidio sia stato commesso da un terzo durante la breve assenza da casa della Franzoni, non senza qui richiamare l’osservazione dei giudici di merito per cui – essendo i medesimi sintomi di apparente (o reale) vitalità della vittima stati osservati e descritti nello stesso modo dalla Satragni, intorno alle ore 8,30, e dallo. lannizzi, intorno alle ore 8,51, e tenendo conto dell’intervallo, stimato tra i 5 ed i i 7 minuti, intercorso tra il verificarsi dell’aggressione ed il decesso – dovrebbe giungersi all’assurda conclusione che l’omicidio si stato commesso intorno alle 8,34 od addirittura oltre tale ora, quando erano già sopraggiunti sul posto i primi soccorritori.
La possibilità dell’azione di un estraneo (anche a prescindere dal comprovato alibi di tutte le persone della zona astrattamente sospettabili) è, del resto, stata esclusa, al di là di ogni ragionevole dubbio, attraverso la prova logica, che con altrettanta correttezza metodologica avrebbe potuto essere collocata al centro, ovvero posta come caposaldo della sequenza indiziaria, in luogo della prova scientifica basata sulla B.P.A., su cui ha, invece, preferito impostare la propria analisi la sentenza impugnata.
Una volta, invero, dimostrate l’assoluta implausibilità dell’ingresso di un estraneo nell’abitazione e la materiale impossibilità che costui possa aver agito, con le modalità già descritte, nel ristrettissimo spazio di tempo a sua disposizione, ed una volta esclusa, come esplicitamente fa la sentenza, ogni responsabilità da parte del marito dell’imputata e del figlio Davide, unica realistica e necessitata alternativa residuale é quella della responsabilità della sola persona presente in casa nelle fasi antecedenti la chiamata dei soccorsi.
Circa il modo di intendere il precetto secondo cui “il giudice pronuncia la sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio”, formalizzato nel comma l dell’art. 533 c.p.p., come sostituito dall’art. 5 1. n. 46/2006, è opportuno richiamare il condivisibile assunto della sentenza di primo grado (pag. 43) secondo il quale il citato dettato normativo impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.
Il concetto, ancor prima della modifica dell’art. 533 cit., era già stato chiaramente espresso da Cass., 2.3.1992, Di Palma, in Riv. pen., 1992, 955, secondo cui “la prova indiziaria…è quella che consente…la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili”.
A quanto sin qui detto si aggiunga la contraddittorietà delle dichiarazioni della prevenuta sulla circostanza dell’avvenuta chiusura o meno della porta d’ingresso a chiave, avendo la Satragni, ritenuta dai giudici della cognizione con certezza affidabile sul punto, riferito che la donna, nell’immediatezza, a specifica domanda o rilievo di uno dei presenti, rispose, con fare quasi risentito, di averla (come, peraltro, sua costante abitudine) regolarmente chiusa, salvo cambiare successivamente versione davanti agli inquirenti.
L’avvenuta chiusura della porta, che non presentava alcun segno di effrazione, escluderebbe, dunque, in radice, l’ipotizzabilità dell’accesso di un estraneo; salva l’eventualità, mai – peraltro – prospettata, che terzi fossero in possesso della relativa chiave.
Il mancato reperimento dell’arma del delitto (ma sembra più corretto parlare della sua mancata individuazione, non potendosi escludere che sia stato usato un oggetto presente nell’abitazione, reso non identificabile in seguito all’eliminazione di ogni utile traccia), unitamente alla circostanza che non é stata dai Lorenzi denunciata la scomparsa di alcunché, ha del tutto ragionevolmente indotto i giudici a considerare ancor più implausibile l’ipotesi della responsabilità di un estraneo, posto che costui avrebbe dovuto, secondo logica, premunirsi dell’arma – nel qual caso dovrebbe, ovviamente, parlarsi di premeditazione del delitto da parte di persona fortemente ostile alla coppia – ma le indagini, come già accennato, hanno consentito di dissolvere ogni motivo di sospetto a carico dei soggetti potenzialmente animati da inimicizia nei confronti della coppia e gravitanti nella cerchia delle loro relazioni.
La consistenza della prova logica rende, dunque, privo di decisiva importanza il problema della sicura determinazione dell’ora della morte e giustifica il mancato accoglimento della richiesta, peraltro avanzata solo dopo l’intervenuta declaratoria di chiusura del dibattimento, di nuovo esame del consulente della difesa prof Torre su temi disparati e, comunque, già ampiamente scandagliati nel corso del giudizio, così come giustificata (anche in relazione alla sempre dimenticata o rimossa opzione dell’imputata per il rito abbreviato) risulta la reiezione della richiesta di riesaminare la teste Satragni su temi di prova vagamente indicati ed anch’essi già, comunque, sufficientemente investigati.
Tutti gli altri elementi ritenuti indizianti dai giudici di merito, seppure costituiti da circostanze processualmente ritenute certe, presentano, individualmente considerate, rilievo secondario, ancorché non insignificante, per la loro minore gravità e precisione rispetto al tema di prova, costituito dalla riconducibilità alla Franzoni dell’esecuzione materiale del delitto; complessivamente valutate nella loro sinergica concordanza, essi rafforzano, tuttavia, il quadro già autonomamente emergente dalla prova scientifica e da quella definita dal ricorrente come “prova logica” (a prescindere dall’osservazione che tutta la prova indiziaria è, nel suo complesso, strutturalmente imperniata sulle leggi ed i procedimenti della logica).
Quanto ora detto vale per la collocazione della casacca del pigiama sotto il piumone, in posizione tale da renderla non percepibile dagli intervenuti (la sentenza congruamente argomenta che se il pigiama fosse finito sotto il piumone quando la Franzoni ricopri il bambino dopo averlo sistemato nel letto matrimoniale esso non si sarebbe potuto macchiare né avrebbe potuto dare origine alla void area, mentre se fosse rimasto sopra al piumone non avrebbe potuto essere rinvenuto al disotto del medesimo, in fondo al letto, tra le lenzuola); egualmente dicasi per la serie delle intrinsecamente contraddittorie telefonate effettuate, alquanto in ritardo rispetto all’ora del suo rientro in casa, dalla prevenuta tra le le 8.27’ 30” e le 8.29’26”, il cui contenuto è stato inizialmente sintetizzato, con particolare riferimento a quella, decisamente minimizzante e riduttiva rispetto a quanto prima esposto alla Satragni, fatta al 118, ed alla telefonata al marito, incomprensibilmente effettuata sull’utenza dell’ufficio, da cui la donna lo sapeva assente, anziché, come sarebbe stato naturale, sul suo cellulare; altrettanto vale per la comprovata circostanza che l’imputata rimase sola a casa dopo l’uscita del figlio Davide, il quale, in base a quanto definitivamente accertato in punto di fatto nelle precedenti istanze e contrariamente alle più recenti dichiarazioni, ritenute mendaci, della madre, precedette costei di alcuni minuti e non assistette al trasferimento del fratello nel letto matrimoniale (donde la ricostruzione dell’omicidio come del tutto verosimilmente eseguito proprio nell’intervallo di tempo tra l’uscita di Davide e quello della prevenuta) e per la mai giustificata scomparsa di uno dei calzini bianchi certamente già indossati dalla donna, posto che uno solo ne venne rinvenuto in casa, sporco del sangue della vittima.
Quanto al problema del movente del delitto attribuito alla Franzoni, premesso che negli omicidi connotati da dolo d’impeto, come espressamente ritenuto quello in esame, sembra più corretto parlare di occasione piuttosto che di causale (quest’ultima implicando un preciso interesse pratico alla consumazione del reato), l’assenza di sicuri elementi di prova circa le ragioni che innescarono la condotta dell’agente non ha consentito che di formulare ipotesi, supponendosi che la donna abbia reagito a qualche capriccio del bambino (a detta dell’imputata svegliatosi ed alzatosi dal letto proprio nell’imminenza della sua uscita con il figlio Davide) ed abbia agito in preda ad uno stato passionale momentaneo. L’impossibilità di individuare con certezza la causale od occasione che originò il gesto criminoso non impedisce, peraltro, data la concludenza del quadro indiziario, di ascriverne la responsabilità all’imputata.
Agli atti del processo è rimasto, comunque, acquisito, attraverso plurime e concordanti testimonianze ritenute attendibili (v. deposizioni Benedetti, Croci, Glarey, Di Macari, Vaudois, Mario:tini e Vaccari), che l’imputata nutriva preoccupazioni (in gran parte ingiustificate) per la normalità ed il regolare sviluppo di Samuele, con particolare e sintomatico riguardo alla conformazione ed alle peculiarità del capo, tanto da avere manifestato il presagio di una sua possibile morte prematura (v. teste Satragni); le ragioni del delitto, verosimilmente propiziato da una circostanza occasionale, possono, dunque, anche inquadrarsi e trovare una chiave di lettura in tale contesto, senza che, peraltro, le ineliminabili incertezze sul punto possano, come già detto, inficiare l’affermazione di responsabilità formulata dai giudici di merito.
Relativamente alle censure mosse alla perizia psichiatrica disposta nel giudizio di appello ed all’esclusione, in difformità dalle conclusioni peritali, di patologie tali da elidere o menomare la capacità di intendere e di volere della prevenuta, si osserva:
– l’art. 220, co. 2, c.p.p. vieta l’espletamento di perizie volte ad accertare il carattere nonché la personalità dell’imputato ed, in genere, le sue qualità psichiche “indipendenti da cause patologiche”, iI che, per converso, sta a significare che detti accertamenti sono consentiti se funzionali alla verifica della sussistenza di cause patologiche; nel caso di specie non é dubbio che la disposta perizia, se investì anche profili caratteriali, personologici od, in senso lato, psicologici, ciò fece nell’ambito ed in funzione esclusiva dell’accertamento di eventuali cause patologiche influenti sull’imputabilità, per cui infondata è l’eccezione di inutilizzabilità formulata dalla ricorrente difesa.
Va, del resto, rilevato che con sentenza 25.1.2005, Raso, in Foro it., 2005, II, 425, le sezioni unite di questa corte hanno esteso il concetto di infermità mentale ai gravi disturbi della personalità, sempre che il giudice accerti che la loro consistenza, intensità, rilevanza e gravità siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere dei soggetto, statuendo che, a tal fine, il giudicante deve avvalersi di tutti gli strumenti a sua disposizione e di ogni elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali, ragione per cui l’investigazione della personalità e delle qualità psichiche dell’imputato di cui si prospetti una possibile infermità mentale diviene addirittura doverosa ed indispensabile;
– nessuna vizio può, conseguentemente, ravvisarsi nell’utilizzazione, da parte dei periti, del contenuto di conversazioni intercettate e di filmati di trasmissioni televisive svoltesi con la partecipazione della perizianda (peraltro solo marginalmente e cautamente valorizzate), la valutazione della cui pertinenza e rilevanza, apoditticamente escluse dal ricorrente, rientra nelle competenze professionali degli esperti ed, in seconda istanza, dai giudice, in questa sede potendosi, in linea generale, osservare che detti materiali appaiono utili ai fini dell’indagine in quanto comunque appartenenti al vissuto del soggetto;
priva di riscontro è anche la critica mossa alla composizione del collegio peritale, in cui, in base a quanto precisato a pag. 473 della sentenza impugnata, uno soltanto dei periti risulta docente di psicologia giuridica mentre gli altri tre sono, rispettivamente, indicati come esperti di psicodiagnostica e psicopatologia differenziale, psicopatologia forense e criminologia;
l’estensione dell’indagine a profili di criminogenesi e criminodinamica, pur in difetto di confessione dell’imputata, trova adeguata giustificazione nei fatto che la responsabilità della medesima (già, del resto, ritenuta gravemente indiziata in sede cautelare) era stata comunque affermata dalla sentenza di primo grado e costituiva, pertanto, elemento non eliminabile dal quadro valutativo, ancorché non processualmente definitivo; non risulta, peraltro, che le valutazioni peritali abbiano preso le mosse dalla premessa di un’accertata responsabilità della perizianda, essendo questa stata assunta sempre in via meramente eventuale, al fine di verificare la possibile attrbuzione del “valore di malattia” al suo ipotizzato gesto (vedi espressamente sul punto pag. 496, ult. periodo, della sentenza impugnata, che riporta testualmente il corretto approccio metodologico dei periti, nonché le pagine seguenti), mentre infondato é il rilievo che attraverso la perizia siano stati ricercati e formati elementi di prova della colpevolezza della Franzoni, posto che i censurati rilievi circa la tardività nella richiesta dei soccorsi e le preoccupazioni della donna per la salute fisiopsichica del figlio o l’avvenuto occultamento delle prove si basano su risultanze processuali già autonomamente acquisite al giudizio ed autonomamente valutate, a prescindere dagli esiti peritali;
– del tutto legittima appare, poi, l’interpretazione dei cc.dd. “lapsus” espressivi individuati in taluna delle conversazioni intercettate, che comunque oggettivamente si prestavano a quelle letture;
– nessun vizio è rilevabile nel mancato esercizio, da parte della corte di merito, del potere di accompagnamento coattivo della perizianda previsto dal combinato disposto degli arti. 224, co. 2 e 132 c.p.p. , essendo lo stesso affidato alle valutazioni discrezionali del giudice ed essendo, nel caso di specie, evidentemente apparso inopportuno od inutile ricorrervi, a fronte del radicale rifiuto della prevenuta di sottoporsi all’esame peritale e di prestare la propria collaborazione, in conformità, peraltro, all’atteggiamento assunto dai suo difensore tecnico.
Quanto al denunciato vizio di travisamento della prova per il mancato accoglimento delle conclusioni di detta perizia, va premesso che la prevenuta, già ritenuta pienamente imputabile dalla perizia psichiatrica disposta nel giudizio di primo grado, ed il suo difensore dell’epoca si opposero strenuamente alla rinnovazione dell’indagine psichiatrica in grado di appello, rifiutando pregiudizialmente qualsiasi contatto con i periti designati, nonostante che detto incombente fosse stato sollecitato con i motivi di gravame, e che analogo atteggiamento non collaborativo scientemente osservò anche il consulente della difesa, omettendo ogni contributo nonostante le sollecitazioni ricevute dallo stesso collegio giudicante (v. pag. 476 della sentenza).
In modo palesemente contraddittorio, con il ricorso in esame, si lamenta,dunque, che il giudice del gravame abbia disatteso le conclusioni di quella stessa perizia di cui si deduce l’inutilizzabilità ed al cui espletamento, pur richiesto, si è, poi, in concreto, fatta opposizione.
Conseguenze di tale atteggiamento e di siffatta opzione difensiva sono forzosamente state la parzialità e la relatività dei giudizi espressi dagli esperti, che non hanno potuto effettuare i consueti colloqui clinici con la prevenuta, cosi come meramente teorica ed incompleta è stata la risposta della perizia neurologica, pure disposta dalla corte di merito, non avendo il perito potuto sottoporre la Franzoni agli esami ritenuti necessari per la formulazione di un esauriente parere.
La diagnosi di “stato crepuscolare orientato” è stata, quindi, formulata non in termini di conclusiva certezza ma unicamente come ipotesi maggiormente plausibile e compatibile con l’assetto di personalità della Franzoni e con la verosimile presenza, in costei, di un conflitto interiore, il cui “polo nascosto” poteva essere costituito dalla preoccupazione nutrita per la salute di Samuele (v. pag. 510 s. della sentenza), a seguito, peraltro, della puntualizzazione che le personalità, come quella della Franzoni, affette da disturbi d’ansia con fenomeni di conversione somatica e caratterizzate da componenti isteriche, non rientrano, in quanto tali, nel novero dei soggetti classificabili come affetti da vizio di mente (v. pag. 515 s. e 520 s. della sentenza).
Non è, comunque, esatto che i giudici dell’appello abbiano disatteso le conclusioni rassegnate dai periti psichiatri, posto che quelle esposte nell’elaborato scritto sono poi state rivisitate e corrette in sede di esami- orale (v. pag. 516 ss.), e proprio alla luce di tali correzioni e messe a punto si è ritenuto di escludere la configurabilità in concreto di quello stato crepuscolare orientato ipotizzato nella relazione di perizia.
Anche a proposito del tema in esame vanno rammentati i limiti fisiologici del giudizio di legittimità, che non può sostituire proprie autonome valutazioni a quelle compiute dai giudici di merito ma può solo verificare la correttezza e congruenza delle motivazioni che le sorreggono. Deve, allora, osservarsi che la sentenza impugnata è pervenuta ad escludere menomazioni rilevanti della capacità di intendere e di volere della prevenuta utilizzando rilievi e concetti espressi dagli stessi periti, secondo cui la condotta dell’imputata immediatamente successiva al reato attribuitole si sarebbe potuta considerare compatibile con il prospettato stato crepuscolare orientato solo ove gli atti compiuti fossero rientrati nella routine quotidiana e fossero, dunque, consistiti nella ripetizione, pressoché automatica, di quelli abitualmente eseguiti ogni mattina, secondo le ordinarie necessità ed occupazioni della vita familiare. Diversamente si sarebbe dovuto ritenere ove, invece, la donna avesse tenuto comportamenti inusuali e finalizzali a differenti scopi.
Proprio in conformità a tale precisazione i giudici del gravame hanno maturato il convincimento della piena imputabilità della giudicabile, ascrivendole il compimento di atti preordinati alla propria difesa, primo dei quali l’eliminazione o la ripulitura dell’arma del delitto (ma anche la ricollocazione degli zoccoli al piano superiore, con l’avvertenza di non lasciare tracce di calpestio lungo il percorso, nonché l’occultamento della casacca del pigiama sotto il piumone e la distorta rappresentazione dello stato del bimbo fatta al 118, pur avendo la donna ammesso di aver subito constatato le evidentissime ferite sul capo del piccolo): atti come tali non rientranti nella descritta routine quotidiana ed interpretabili, pertanto come sintomo di non interrotto contatto con la realtà ed inalterata coscienza di sé e delle proprie azioni nonché di razionale lucidità (ipotesi, peraltro, considerata anche in sede di relazione scritta: v. pag. 497 s. e 513 s. della sentenza).
Va, d’altronde, considerato che, secondo quanto desumibile dalla sentenza impugnata, la Franzoni non denotò mai assenze o sospensioni dei la coscienza durante l’intera mattinata del 30.1.2002, attendendo regolarmente e coerentemente alle proprie incombenze familiari anche prima di uscire di casa per accompagnare i figlio Davide alla fermata dello scuola-bus, mentre sempre dai medesimo elaborato giudiziale risulta che le crisi accusate dalla donna la sera precedente e nelle prime ore di quello stesso 30 gennaio, come, del resto, altre similari subite in precedenti o successive occasioni e pure descritte in sentenza, furono costantemente connotate da stato di prostrazione e debolezza, giramenti di testa o senso di svenimento e mai da accessi di violenza o dal compimento di gesti inconsulti, per cui risulterebbe comunque arduo ricondurre alla manifestazione di simile sintomatologia il compimento di un gesto postulante, invece, accentuata energia ed impiego di forza fisica.
Anche sotto questo profilo la decisione si sottrae, pertanto, alle censure difensive.
Quanto all’ultimo capitolo, costituito dal trattamento sanzionatorio, è inesatto che l’invero sofferto e meditato giudizio di mera equivalenza delle pur concesse attenuanti generiche all’aggravante di cui all’art. 577, co. 1, c.p. e la determinazione della misura della pena siano stati giustificati sulla base della sola natura del titolo del reato, essendo, in realtà, state valutate anche le modalità particolarmente efferate del gesto criminoso (numero – almeno 17 – .e violenza dei colpi, reiterati nonostante il tentativo di difesa compiuto dalla vittima, testimoniato dalle lesioni riscontrate sulla sua mano sinistra) nonché le circostanze di tempo e di luogo dell’azione e l’elevata intensità del dolo, pur ritenuto d’impeto (anche tale specie di dolo consentendo graduazioni della sua intensità).
Non residuano, dunque, spazi, neppur: sotto tale ultimo aspetto, per un intervento censorio in sede di legittimità.
P Q.M.
Dichiara manifestamente infondate le d-z lotte questioni di legitwiinità costituzionale. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedi mento.
Roma, 21.5.2008