La Corte di Cassazione, nella sentenza 15 settembre 2008 n. 23676, osserva che, nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata.
Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto «ideologica», ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una «precomprensione»: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute.
Prima di gingere a tali affermazioni il Collegio precisa che non intende negare il più generale principio (di indubbia rilevanza costituzionale, che emerge, tra l’altro, tanto dal codice di deontologia medica quanto dal documento 20.6.1992 del comitato nazionale per la bioetica) in forza del quale va riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita. Né pare seriamente contestabile quanto sostenuto da un’attenta dottrina in tema di consenso informato nella trasfusione di sangue, e cioè che, in subiecta materia, deve ritenersi diversa, rispetto ai casi ordinari, la fattispecie in cui sia il testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, a negare il consenso alla terapia trasfusionale, essendo in tal caso il medico obbligato alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico. E ciò perché il conflitto tra due beni – entrambi costituzionalmente tutelati – della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusioni obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali (così, un rifiuto «autentico» della emotrasfusioni da parte del testimone di Geova capace – avendo, in base al principio personalistico, ogni individuo il diritto di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell’anima – esclude che qualsiasi autorità statuale – legislativa, amministrativa, giudiziaria – possa imporre tale trattamento: il medico deve fermarsi).
Emiliana Matrone
Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 15 settembre 2008, n. 23676
IN FATTO
M.G., nel convenire in giudizio dinanzi al tribunale di Pordenone la locale Usl n. 11, espose che, nel gennaio del 1990, in conseguenza di una serie di trasfusioni di sangue praticategli nell’ospedale di Pordenone nonostante egli, in qualità di testimone di Geova, fosse contrario, per motivi religiosi, a tale pratica terapeutica (circostanza emergente da un cartellino che egli portava con sé, recante la dicitura «niente sangue»), aveva subito danni morali e biologici.
Di questi chiese, pertanto, l’integrale risarcimento, ivi compresi quelli conseguenti ad una infezione virale da epatite B da lui contratta a seguito del trattamento terapeutico ricevuto.
La Usl, nel costituirsi, osservò in limine, che, non essendo stato possibile ottenere il consenso del paziente, era stata richiesta ed ottenuta una autorizzazione dal locale procuratore della Repubblica, e rilevò altresì, a sostegno del proprio assunto difensivo volto ad escludere ogni responsabilità dei sanitari, che il paziente era stato condotto presso il nosocomio in stato di perdita di conoscenza ed in pericolo di vita, peraltro scongiurabile attraverso una trasfusione di sangue.
Venne disposta ed esperita una consulenza medico legale, che dichiarò necessarie gran parte delle trasfusioni al fine di salvare la vita del paziente, nonché idoneo il sangue trasfuso, con conseguente estraneità dell’intervento terapeutico alla trasmissione del virus dell’epatite sì come lamentato dal G.
L’adito tribunale, in accoglimento della domanda attorea, condannò la USL al risarcimento dei danni, distinti nella specie, secondo una duplice qualificazione, la prima definita morale/esistenziale, la seconda biologica.
La sentenza fu impugnata dalla convenuta dinanzi alla corte di appello di Trieste, la quale, riunitone il gravame con quello incidentale proposto dal G., osservò per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità:
1) che la circostanza secondo cui, nel periodo di degenza funzionale all’esecuzione delle trasfusioni, il paziente versava in stato di incoscienza o semi-incoscienza (e comunque in una condizione tale da non poter essere assolutamente informato della situazione clinica) doveva ritenersi pacifica;
2) che non appariva seriamente contestabile la configurabilità, nel nostro ordinamento di un diritto, costituzionalmente garantito, a non subire trattamenti sanitari indesiderati (ad eccezione di quelli predeterminati per legge);
3) che a tale, astratta configurabilità in iure conseguiva la insuperabile liceità di un dissenso manifestato, per motivi religiosi, alle trasfusioni di sangue;
4) che a fronte di tale diritto del paziente si poneva, peraltro, il potere/dovere dei medici ospedalieri di apprestare tutte le cure idonee ad evitare ogni pregiudizio grave e immediato alla salute del medesimo;
5) che, in particolare, nella ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente, il dissenso di costui al trattamento necessario doveva essere manifestato in maniera chiara, attuale, informata;
6) che l’esistenza di tale dissenso non poteva nella specie, ritenersi legittimamente predicabile per il solo fatto che il G. portasse con sé un cartellino recante la scritta «niente sangue»: tale circostanza poteva, difatti, al più esprimere, al riguardo, una volontà non concreta ma astratta, non specifica ma programmatica, non informata ma ideologica, e soprattutto, passata, preventiva, non attuale;
7) che nessun valore legale poteva, nella specie, essere attribuito alle informazioni fornite ai sanitari dai parenti del G., così come del tutto ininfluente doveva specularmene ritenersi l’anomalo intervento autorizzativi promanante (quasi in guisa di assoluzione preventiva) dalla locale procura della repubblica;
8) che del tutto irrilevante si appalesava, inoltre, il numero delle trasfusioni eseguite ai fini risarcitori invocati dal paziente;
9) che dalle risultanze della c.t.u. emergeva, ancora, come il nesso di causalità tra le trasfusioni e l’infezione da epatite B non potesse dirsi in alcun modo sussistente, potendo la malattia accusata dal G. due mesi dopo le trasfusioni ben essere stata conseguenza di altre vicende, quali l’uso di cose in comune con persone infette, rapporti sessuali,cure dentali, scarsa igiene ecc.
La sentenza della corte territoriale è stata impugnata da M. G. con ricorso per cassazione sorretto da 4 motivi di gravame.
Resiste con controricorso la gestione liquidatoria delle soppressa Usl 11 di Pordenone.
Parte ricorrente ha depositato tempestiva memoria.
IN DIRITTO
Va preliminarmente esaminata la questione procedurale riproposta dinanzi a questa corte dalla controricorrente in ordine al preteso difetto di legittimazione passiva della gestione liquidatoria della soppressa Usl.
Essa è priva di giuridico fondamento, giusta una più che consolidale giurisprudenza di questa corte regolatrice formatasi in tema di interruzione del processo (e pluribus, Cass. 21378/2005; 19947/2004; 11269/2004; 9911/1998), a mente della quale la perdita di capacità processuale di una parte non spiega effetti nei confronti delle altre parti se l’evento interruttivo non sia dichiarato in udienza, ovvero notificato fuori udienza, alle controparti medesime: emerge, di converso, dalla lettura della sentenza di appello (f. 10) che la difesa della gestione liquidatoria ebbe a costituirsi in qualità di appellante nel giudizio di secondo grado senza mai sollevare questioni di legittimazione passiva o di estinzione del giudizio per perdita della capacità processuale della parte assistita.
Dall’esame del merito del ricorso principale emerge la fondatezza del terzo motivo, mentre le restanti doglianze svolte dalla difesa del G. non possono trovare accoglimento.
Con il primo motivo, si denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia: rilevanza rifiuto di del trattamento medico espresso in precedenza da paziente in stato di incoscienza.
Con il secondo motivo si denuncia, ancora, contraddittorietà e comunque insufficienza della motivazione su punti decisivi della controversia: numero e necessità delle trasfusioni – mancato intervento di emostasi.
Con il quarto motivo, si denuncia, infine, violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione.
I motivi, benché caratterizzati da indiscutibile vis argomentativi, e da non trascurabili suggestioni etiche, non possono essere accolti.
Dal loro complessivo contenuto (che ne rende legittimo l’esame congiunto, attesane la intrinseca connessione logico-giuridica), emerge una serrata critica della sentenza impugnata – sotto il profilo tanto della violazione di legge quanto del deficit di motivazione – che si sostanzia nel contestare al giudice del merito la mancata considerazione del dissenso a qualsiasi attività trasfusionale espresso dal paziente attraverso il cartellino recante la scritta «niente sangue».
Le articolate e complesse motivazioni poste a fondamento di tale doglianza non colgono nel segno.
Essi si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui questi ha ritenuto di esaminare e raffrontare il comportamento dei medici con quello del paziente secondo un’indagine di tipo diacronico, scandendo i tempi del (negato) consenso secondo una condivisibile analisi «progressiva» della sua rilevanza contenutistica sub specie della necessità, nella specie non predicabile, di una manifestazione espressa, inequivoca, attuale, in relazione alla gravità della situazione medica prospettatasi fin dal momento del ricovero in ospedale.
Suggestivamente osserva in proposito il ricorrente che sarebbe «precisamente in previsione di situazioni di drammatica emergenza, nelle quali non si sarebbe trovato in grado di manifestare direttamente a voce la sua contrarietà a tale trattamento terapeutico che M. G. si è munito del famoso documento attestante il suo rifiuto assoluto di subire trasfusioni di sangue», soggiungendo ancora che «la scelta di premunirsi di tale apposito documento, sottoscritto personalmente e controfirmato da testimoni» avrebbe «precisamente lo scopo di rendere sempre noto ed inequivocabile, in qualsiasi situazione ci si venga a trovare, il dissenso motivatamente espresso ad una determinata pratica medica, quale che sia la situazione in cui se ne determini la necessità e qualunque sia la conseguenza di tale scelta»; e si rammenta, in proposito, che, ai sensi dell’art. 19 del decreto del ministero della sanità 15.1.1991 «la trasfusione di sangue necessita del consenso informato del ricevente»; che, ai sensi dell’art. 12 del decreto dello stesso ministero, «il ricevente la trasfusione – è tenuto ad esprimere per iscritto il proprio consenso o dissenso; che, infine, la legge 145/2001, nel ratificare la convenzione del consiglio d’Europa sulla protezione dei diritti dell’uomo riguardo all’applicazione della biologia e della medicina, all’art. 5 stabilisce che «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato, aggiungendo poi, all’art. 8, che, allorquando in una situazione di urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata, ma precisando poi, all’art. 9, che i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione».
Tali doglianze non possono essere condivise.
Va in premessa osservato come il collegio non intenda punto negare il più generale principio (di indubbia rilevanza costituzionale, che emerge, tra l’altro, tanto dal codice di deontologia medica quanto dal documento 20.6.1992 del comitato nazionale per la bioetica) in forza del quale va riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita. Né pare seriamente contestabile quanto sostenuto da un’attenta dottrina in tema di consenso informato nella trasfusione di sangue, e cioè che, in subiecta materia, deve ritenersi diversa, rispetto ai casi ordinari, la fattispecie in cui sia il testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, a negare il consenso alla terapia trasfusionale, essendo in tal caso il medico obbligato alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico. E ciò perché il conflitto tra due beni – entrambi costituzionalmente tutelati – della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusioni obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali (così, un rifiuto «autentico» della emotrasfusioni da parte del testimone di Geova capace – avendo, in base al principio personalistico, ogni individuo il diritto di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell’anima – esclude che qualsiasi autorità statuale – legislativa, amministrativa, giudiziaria – possa imporre tale trattamento: il medico deve fermarsi).
Vero è piuttosto che la questione di diritto sottoposta all’esame di questa corte nel caso di specie ha ad oggetto la reale efficacia del «non consenso» si come manifestato dal paziente sul piano tanto cronologico quanto contenutistico-formale.
E’ convincimento del collegio, in sintonia con quanto in proposito opinato dalla corte territoriale, che, nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata.
Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto «ideologica», ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una «precomprensione»: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute.
E ciò perché, a fronte di un sibillino sintagma «niente sangue» vergato su un cartellino, sul medico curante graverebbe in definitiva il compito (invero insostenibile) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale «resistenza» delle sue convinzioni religiose a fronte dell’improvviso, repentino non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue.
Di talché, come la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, così la efficacia di uno speculare dissenso ex ante, privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica, deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo scientemente, e ciò perché altra è l’espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altro è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita.
Con ciò non rivuole, peraltro, sostenere che, in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, debba per ciò solo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede. Ma è innegabile, in tal caso, l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari.
Per tale ragione non sembra potersi attribuire pregio all’obiezione – pur specificamente mossa dal ricorrente – secondo la quale il cartellino recante la scritta «niente sangue» – che il paziente, come si è detto, recava con sé al momento del ricovero – avrebbe la specifica funzione di indirizzare il medico verso un comportamento omissivo rispetto all’ipotesi del trattamento trasfusionale: se l’affermazione ha una sua logica e una sua coerenza con riferimento al possibile stato di incoscienza del ricoverato, essa non consente l’ulteriore inferenza che conduca a presumerne una sorta di implicita efficacia tout court, estesa, cioè anche all’ipotesi del concreto pericolo di vita che il paziente stesso si troverebbe a correre in assenza di trasfusione, mentre è proprio con riferimento a questa specifica evenienza che – va ripetuto – il (non) consenso deve manifestarsi nella sua più ampia, espressa, consapevole, inequivoca forma.
Del pari condivisibile appare la motivazione della sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto irrilevante il numero delle trasfusioni eseguite (due delle quali, a detta del consulente, non sarebbero state nella specie imposte da un imminente pericolo per la vita del paziente). Va difatti ribadita la legittimità dell’osservazione secondo cui i sanitari, una volta determinatisi ad intervenire con le trasfusioni (mostrando, in proposito, un evidente travaglio morale come comprovato dalla – peraltro irrilevante – richiesta di autorizzazione alla locale procura della repubblica), le avevano poi compiute secondo protocolli terapeutici non sindacabili sotto il profilo invocato dal ricorrente, essendone evidentemente irrilevante il numero ai fini per i quali è processo.
Con il terzo motivo. Si denuncia, infine, contraddittorietà e comunque insufficienza della motivazione su di un punto decisivo della controversia – prova del nesso causale fra trasfusioni effettuate e insorgenza dell’infezione da epatite virale di tipo B.
Lamenta la difesa del ricorrente che, nell’escludere il nesso causale tra le trasfusioni di sangue ricevute dal paziente e il contagio da virus dell’epatite B, la corte territoriale abbia valutato la c.t.u. con riferimento, pressoché unico, alle attestazioni circa la qualità dei donatori provenienti dalla stessa azienda citata in giudizio.
Il motivo è fondato
Questa corte regolatrice ha, di recente, avuto modo di rimeditare funditus il problema della causalità civile, per affermare, prima con la sentenza 21619/2007 di questa stessa sezione, poi con la pronuncia 581/2008 delle sezioni unite, che la regola probatoria in subiecta materia non può essere considerata quella dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale, bensì quella del «più probabile che non». Nel caso di specie, è del tutto evidente che la relazione probabilistica tra i fatti di trasfusione e l’evento di danno costituito dal contagio del virus dell’epatite B sia assai più alta rispetto a tutte le ipotesi individuate come possibili (ma, in realtà, assai improbabili, oltre che oggetto di mere ed indimostrate congetture del giudice del merito) dalla sentenza impugnata, la cui contraddittorietà emerge altresì dall’avere, da un canto, considerata decisiva la circostanza nella negatività sierologia dei donatori, e dall’altro omesso del tutto di valutare che tale negatività (come la stessa sentenza riconosce al folio 17) non desse alcuna garanzia di non infettività, esistendo una «finestra diagnostica» corrispondente ad un periodo variabile da 6 a 12 mesi (mentre l’insorgenza del virus nel G. seguì di soli 2 mesi la vicenda trasfusionale).
Il ricorso va pertanto accolto con riferimento al solo terzo motivo e rigettato nel resto.
P.Q.M.
Rigetta il primo, secondo e quarto motivo del ricorso, accoglie il terzo, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d’appello di Trieste in altra composizione.