La Corte Costituzionale, nella sentenza 15 aprile 2010 n. 138, dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione e non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».
Non si possono ignorare le rapide trasformazioni della società e dei costumi, il superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i princìpi costituzionali.
Tuttavia, l’intera disciplina dell’istituto del matrimonio, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio».
Nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria, «l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso».
Il chiaro tenore delle disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».
In particolare, i Giudici Costituzionali, osservano che l’art. 2 della Costituzione dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione, dunque, è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Tuttavia, la Corte Costituzionale esclude che l’aspirazione a tale riconoscimento possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio.
Ne deriva che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988).
Emiliana Matrone
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