Nell’ambito del diritto del lavoro il termine “mobbing” si riferisce alle ripercussioni che subisce il lavoratore da parte di colleghi o superiori. Si tratta, in genere, di una strategia di persecuzione psicologica attuata in un ambiente di lavoro per costringere la vittima in una posizione di debolezza e, nei casi più gravi, per costringerla alle dimissioni.
Nell’ambito del diritto di famiglia il mobbing familiare o coniugale descrive l’insieme dei maltrattamenti posti in essere, con cadenza quotidiana, sistematica, duratura, verso un membro della famiglia dai suoi stessi familiari.
I comportamenti mobbizzanti sono diretti a sminuire il ruolo che la vittima ha nella famiglia, a disprezzarla per il suo aspetto fisico, per la scarsa capacità reddituale, per la mancanza di istruzione, al fine di distruggerene la personalità e, nei casi più gravi, ad allontanarla dalla casa familiare.
Tale condizione provoca nella vittima una situazione di grave depressione e di malessere fisico e psicologico.
Nella maggior parte dei casi il mobbing si manifesta in maniera subdola, ad esempio, attraverso apprezzamenti offensivi in pubblico o in presenza di amici e conoscenti; attraverso continue e sistematiche provocazioni.
In proposito, la Corte di Appello di Torino, nella nota sentenza del 21 febbraio 2000, riconosce, per la prima volta, il mobbing coniugale come causa di addebitabilità nella separazione personale dei coniugi.
Nella sentenza si afferma che i comportamenti del il marito erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: il marito additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa.
I Giudici di Torino osservano che il marito “con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la moglie nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”.
La Corte conclude nel senso che tali condotte sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione” e, pertanto, al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”.