La Cassazione ritiene che, ai fini dell’indennizzo del danno per la lentezza dei processi non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera a), della L. 89/2001.
Nel caso concreto la Suprema Corte stabilisce che il danno va calcolato sugli anni dopo il quinto e non sull’intera durata del procedimento (Cass. 14/2008).
È opportuno richiamare alla mente l’art. 6 della Convenzione della salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la L. 848/1955, che riconosce il diritto ad un processo equo ed enuncia le caratteristiche che questo deve possedere per essere tale e, stabilendone così il contenuto, individua anche quali sono gli obblighi cui gli Stati contraenti devono conformarsi nell’organizzare il loro sistema giudiziario, sicchè le varie richieste di giustizia possono avere risposta a mezzo di un processo che, rispondendo alle caratteristiche imposte da detta norma, possa ritenersi equo.
Tale disposizione, però, non individua le conseguenze delle violazioni e le modalità della loro riparazione.
Invero, la riparazione della violazione trova la sua disciplina di principio:
1)nell’art. 41 della CEDU, sull’equa soddisfazione, il quale dispone che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno della Alta Corte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”;
2)nell’art. 13 della Convenzione, sul diritto ad un ricorso effettivo, il quale dispone che “ogni persona, i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
Emiliana Matrone