La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la Sentenza del 16 luglio 2020, nella causa C-658/18 avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale sollevata dal Giudice di Pace di Bologna, nell’ambito di un procedimento per decreto ingiuntivo volto ad ottenere l’indennità a titolo di ferie annuali retribuite per le prestazioni svolte dal ricorrente in qualità di giudice di pace contro il Governo della Repubblica Italiana, affronta la spinosa questione relativa alla discriminazione del trattamento retributivo dei giudici di pace, con particolare riferimento alla mancata retribuzione delle ferie di agosto, stabilendo che la normativa italiana che non riconosce ai giudici di pace il diritto alle ferie retribuite nel mese di agosto può essere giustificata dalla diversità di qualifiche e mansioni rispetto a quelle dei magistrati ordinari.
La decisone della Corte di Giustizia dell’Unione Europea risulta di grande interesse per diversi ordine di ragioni. Essa, infatti, pone dei punti fermi nello stabilire se il giudice di pace costituisca “giurisdizione nazionale”; se l’attività del giudice di pace rientri nella “nozione di lavoro subordinato” e se sia qualificabile come “lavoratore a tempo determinato”; infine, se vi sia discriminazione tra il trattamento retributivo dei giudici di pace e quello dei giudici ordinari.
Tale pronuncia assegna ai giudici di pace – troppo spesso considerati nell’ordinamento giuridico italiano come dei “volontari” che possono svolgere la loro attività senza alcun vincolo – lo stesso “status giuslavorativo dei magistrati a tempo indeterminato”.
Più precisamente, la Corte dichiara quanto segue:
«1) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che il Giudice di pace (Italia) rientra nella nozione di «giurisdizione di uno degli Stati membri», ai sensi di tale articolo.
2) L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di «lavoratore», ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che la nozione di «lavoratore a tempo determinato», contenuta in tale disposizione, può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato della direttiva 1999/70, deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell’ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
Sotto il profilo normativo, occorre ricordare che la Legge del 21 novembre 1991, n. 374 – Istituzione del giudice di pace – prevedeva per i giudici di pace un’indennità per ciascuna udienza civile o penale, anche se non dibattimentale, e per l’attività di apposizione dei sigilli, e un’indennità per ogni altro processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo. Ancora, era dovuta un’indennità per ciascun mese di effettivo servizio a titolo di rimborso spese per l’attività di formazione, aggiornamento e per l’espletamento dei servizi generali di istituto. Nulla, invece, spettava durante il periodo di sospensione per ferie.
L’articolo 24 del Decreto Legislativo del 13 luglio 2017, n. 116, Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della Legge 28 aprile 2016, n. 57, prevede un’indennità per il periodo feriale per i giudici di pace, ma solo per i magistrati onorari che hanno assunto le loro funzioni dopo il 16 agosto 2017.
Dunque, nel procedimento principale, il ricorrente, la cui data di entrata in servizio come giudice di pace era antecedente, non avrebbe dovuto beneficiare di alcuna indennità per le ferie nel mese di agosto, a differenza di quanto previsto per i giudici ordinari.
La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione», prevede quanto segue: “1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.
Il Giudice di Pace di Bologna, rilevando la suddetta incongruenza, sospendeva il giudizio e sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se il giudice di pace, quale giudice del rinvio pregiudiziale, rientra nella nozione di giudice comune europeo competente a proporre istanza di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, anche se l’ordinamento interno non gli riconosce, per la sua precarietà lavorativa, condizioni di lavoro equivalenti a quelle dei magistrati professionali pur svolgendo le stesse funzioni giurisdizionali con incardimento nell’ordinamento giudiziario nazionale, in violazione delle garanzie di indipendenza e di imparzialità del giudice comune europeo, indicate dalla Corte di giustizia nelle sentenze Wilson (EU:C:2006:587, punti 47-53), Associaçâo Sindical dos Juizes Portugueses (EU:C:2018:117, punto 32 e punti 41-45), Minister for Justice and Equality (EU:C:2018:586, punti 50-54).
2) Nel caso di risposta affermativa al quesito sub.1), se l’attività di servizio del giudice di pace ricorrente rientra nella nozione di “lavoratore a tempo determinato”, di cui, in combinato disposto, agli articoli 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88, alla clausola 2 dell'[accordo quadro] e all’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nell’interpretazione della Corte di giustizia nelle sentenze O’Brien (EU:C:2012:110) e King (EU:C:2017:914), e, in caso di risposta affermativa, se il magistrato ordinario o professionale possa essere considerato lavoratore a tempo indeterminato equiparabile al lavoratore a tempo determinato “giudice di pace”, ai fini dell’applicazione delle stesse condizioni di lavoro di cui alla clausola 4 dell'[accordo quadro].
3) Nel caso di risposta affermativa ai quesiti sub. 1) e sub. 2), se l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con l’art. 267 TFUE, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia Ue in materia di responsabilità dello Stato italiano per manifesta violazione della normativa [dell’Unione] da parte del Giudice di ultima istanza nelle sentenze Kobler (EU:C:2003:513), Traghetti del Mediterraneo (EU:C:2006:391) e Commissione contro Repubblica italiana (EU:C:2011:775), siano in contrasto con l’art. 2, commi 3 e 3-bis, della legge 13 aprile 1988 n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati, che prevede la responsabilità del giudice per dolo o colpa grave “in caso di violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione […]” e che pone il giudice nazionale di fronte alla scelta – che comunque venga esercitata è causa di responsabilità civile e disciplinare nei confronti dello Stato nelle cause in cui parte sostanziale è la stessa amministrazione pubblica, particolarmente quando il giudice della causa è un giudice di pace con lavoro a tempo determinato privo di tutele effettive giuridiche, economiche e previdenziali -, come nella fattispecie di causa, se violare la normativa interna disapplicandola e applicando il diritto dell’Unione […], come interpretato dalla Corte di giustizia, o invece violare il diritto dell’Unione […] applicando le norme interne ostative al riconoscimento della tutela e in contrasto con gli articoli 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88, con le clausole 2 e 4 dell'[accordo quadro] e con l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
Sul primo punto, la Corte ricorda che per valutare se l’organismo di rinvio di cui trattasi costituisca una «giurisdizione» ai sensi dell’articolo 267 TFUE, occorre tenere in conto una serie di elementi, quali l’origine legale di tale organismo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, lo svolgimento in contraddittorio dei procedimenti dinanzi ad esso, l’applicazione, da parte dell’organo, di norme giuridiche, nonché la sua indipendenza.
Data per certa l’origine legale del giudice di pace italiano, la Corte si interroga sulla sussistenza in capo all’organo in questione del requisito dell’indipendenza.
Secondo la giurisprudenza europea, l’indipendenza si colora di due aspetti fondamentali.
Il primo, di ordine esterno, si realizza quando “l’organismo in questione eserciti le proprie funzioni in piena autonomia, senza soggiacere a vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni di qualsivoglia origine, in modo da essere tutelato dinanzi agli interventi o alle pressioni esterne suscettibili di compromettere l’indipendenza di giudizio dei suoi membri e di influenzare le decisioni di questi”.
Costituisce un’importante garanzia di indipendenza il principio di inamovibilità, secondo cui “i giudici possano continuare a esercitare le proprie funzioni finché non abbiano raggiunto l’età obbligatoria per il collocamento a riposo o fino alla scadenza del loro mandato, qualora quest’ultimo abbia una durata determinata”.
Il secondo aspetto, di ordine interno, è ricollegabile all’imparzialità dell’organo e riguarda “l’equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima. Questo aspetto impone il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica”.
Dall’esame della normativa italiana in tema di giudice di pace ed, in particolare, della L. 374/1991, la Corte afferma che entrambi gli aspetti siano ravvisabili nell’organo in parola.
La Corte, poi, passa ad occuparsi del quesito circa l’applicabilità della Direttiva 2003/88 ovvero se un giudice di pace che svolge le sue funzioni in via principale e che percepisce indennità connesse alle prestazioni effettuate, nonché indennità per ogni mese di servizio effettivo, possa rientrare nella nozione di «lavoratore» ai sensi del diritto dell’Unione e conclude per una risposta affermativa.
Come è noto, l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 2003/88 definisce il campo di applicazione della stessa attraverso un rinvio all’articolo 2 della direttiva 89/391.
Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 89/391, quest’ultima concerne «tutti i settori d’attività privati o pubblici».
Per la Corte, “anche se l’attività giurisdizionale del giudice di pace non è espressamente menzionata tra gli esempi citati all’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 89/391, essa fa parte del settore di attività pubblico. Essa rientra, quindi, in linea di principio, nel campo di applicazione della direttiva 89/391 e della direttiva 2003/88”.
Infatti, secondo le menzionate disposizioni europee, va qualificata come «lavoratore» ogni persona che “svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da poter essere definite puramente marginali e accessorie”.
Ancora, è «lavoratore» ogni persona che “fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in cambio delle quali percepisca una retribuzione”.
Per quanto riguarda le prestazioni svolte dal ricorrente nel procedimento principale in qualità di giudice di pace, dall’ordinanza di rinvio risulta che esse sono reali ed effettive e che, inoltre, essa le svolge in via principale. Tali prestazioni non appaiono puramente marginali e accessorie.
Inoltre, con particolare riguardo alla retribuzione, va verificato se le somme percepite dal ricorrente vengano versate come corrispettivo della sua attività professionale.
In proposito, la Corte osserva che “la sola circostanza che le funzioni del giudice di pace siano qualificate come «onorarie» dalla normativa nazionale non significa che le prestazioni finanziarie percepite da un giudice di pace debbano essere considerate prive di carattere remunerativo”.
Puntualizza, altresì, che “anche se è certo che la retribuzione delle prestazioni svolte costituisce un elemento fondamentale del rapporto di lavoro, resta comunque il fatto che né il livello limitato di tale retribuzione né l’origine delle risorse per quest’ultima possono avere alcuna conseguenza sulla qualità di «lavoratore» ai sensi del diritto dell’Unione”.
Un rapporto di lavoro presuppone l’esistenza di un vincolo di subordinazione tra il lavoratore e il suo datore di lavoro.
Per la Corte anche i giudici di pace svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione.
Infatti, essi sono tenuti a rispettare tabelle che indicano la composizione del loro ufficio di appartenenza, le quali disciplinano nel dettaglio e in modo vincolante l’organizzazione del loro lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza. I giudici di pace sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del Capo dell’Ufficio. Tali giudici sono, inoltre, tenuti all’osservanza dei provvedimenti organizzativi speciali e generali del Consiglio Superiore della Magistratura. Detti giudici devono essere costantemente reperibili e sono soggetti, sotto il profilo disciplinare, ad obblighi analoghi a quelli dei magistrati professionali.
Tuttavia, tale vincolo non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante né è incompatibile con l’indipendenza e l’autonomia dei giudici e, quindi, non impedisce di qualificare i giudici di pace come «lavoratori».
Ad avviso della Corte, altresì, il giudice di pace può essere incluso nella nozione di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi del diritto dell’Unione, in quanto nominato per un periodo limitato.
Infine, la Corte risponde alla domanda se vi sia discriminazione tra il trattamento retributivo dei giudici di pace e quello dei giudici ordinari.
La ratio della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro è quella di dare applicazione al principio di non discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di lavoro di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti che sono riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato.
Tale clausola esprime un principio di diritto sociale dell’Unione che non può essere interpretato in modo restrittivo.
Il principio di non discriminazione, di cui la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro richiede che situazioni comparabili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato.
Al fine di valutare se i lavoratori interessati esercitino un lavoro identico o simile nel senso dell’accordo quadro, occorre stabilire, se, tenuto conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una situazione comparabile.
Nel caso di specie, dal fascicolo sottoposto alla Corte risulta che il ricorrente nel procedimento principale, in qualità di giudice di pace, potrebbe essere considerato comparabile a un giudice togato (magistrato ordinario).
In particolare, dal fascicolo risulta che, al pari di un magistrato ordinario, il giudice di pace è, “in primo luogo, un giudice che appartiene all’ordine giudiziario italiano e che esercita la giurisdizione in materia civile e penale, nonché una funzione conciliativa in materia civile. In secondo luogo, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, della legge n. 374/1991, il giudice di pace è tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari. In terzo luogo, il giudice di pace, al pari di un magistrato ordinario, è tenuto a rispettare tabelle indicanti la composizione dell’ufficio di appartenenza, le quali disciplinano dettagliatamente ed in modo vincolante l’organizzazione del suo lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza. In quarto luogo, sia il magistrato ordinario che il giudice di pace sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del Capo dell’Ufficio, nonché i provvedimenti organizzativi speciali e generali del CSM. In quinto luogo, il giudice di pace è tenuto, al pari di un magistrato ordinario, ad essere costantemente reperibile. In sesto luogo, in caso di inosservanza dei suoi doveri deontologici e d’ufficio, il giudice di pace è sottoposto, al pari di un magistrato ordinario, al potere disciplinare del CSM. In settimo luogo, il giudice di pace è sottoposto agli stessi rigorosi criteri applicabili per le valutazioni di professionalità del magistrato ordinario. In ottavo luogo, al giudice di pace vengono applicate le stesse norme in materia di responsabilità civile ed erariale previste dalla legge per il magistrato ordinario”.
Accertato che un giudice di pace come il ricorrente nel procedimento principale e i magistrati ordinari sono comparabili, si deve poi ancora verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi una differenza di trattamento come quella di cui trattasi nel procedimento principale.
Il Giudice Europeo scorge, in realtà, una unica differenza derivante dal fatto che le controversie riservate alla magistratura onoraria, e in particolare ai giudici di pace, non hanno gli aspetti di complessità che caratterizzano le controversie devolute ai magistrati ordinari. Inoltre, evidenzia come, ai sensi dell’articolo 106, secondo comma, della Costituzione Italiana, i giudici di pace possono svolgere soltanto le funzioni attribuite a giudici singoli e non possono quindi far parte di organi collegiali.
La Corte chiarisce che spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare, in ultima analisi, se un giudice di pace è equiparabile al magistrato ordinario.
Una volta accertato che un giudice di pace come il ricorrente nel procedimento principale e i magistrati ordinari sono comparabili, si deve poi ancora verificare se esista una “ragione oggettiva” che giustifichi una differenza di trattamento come quella di cui trattasi nel procedimento principale.
Per costante giurisprudenza, “la nozione di «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro dev’essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale o astratta, quale una legge o un contratto collettivo”.
Detta nozione richiede “che la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. Tali elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro”.
Nel caso di specie, il Governo Italiano, per giustificare la differenza di trattamento dedotta nel procedimento principale, sostiene che costituisca una ragione oggettiva l’esistenza di un concorso iniziale, specificamente concepito per i magistrati ordinari ai fini dell’accesso alla magistratura, che invece non vale per la nomina dei giudici di pace. Inoltre, il Governo sottolinea che la competenza dei giudici di pace sia diversa da quella dei magistrati ordinari assunti mediante concorso.
Contrariamente a questi ultimi, per quanto riguarda la particolare natura delle mansioni e le caratteristiche ad esse inerenti, ai giudici di pace verrebbero affidate controversie il cui livello di complessità ed il cui volume non corrispondono a quelli delle cause dei magistrati ordinari.
Tenuto conto di tali differenze, sia sotto il profilo quantitativo che sotto quello qualitativo, il Governo italiano ritiene giustificato trattare in modo diverso i giudici di pace e i magistrati ordinari.
Deve ancora assegnarsi rilievo al margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per quanto riguarda l’organizzazione delle loro amministrazioni pubbliche. In ragione di tanto, essi possono, in linea di principio, senza violare la direttiva 1999/70 o l’accordo quadro, stabilire le condizioni di accesso alla magistratura, nonché condizioni di impiego applicabili sia ai magistrati ordinari che ai giudici di pace.
Tuttavia, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale.
Qualora un simile trattamento differenziato derivi dalla necessità di tener conto di esigenze oggettive attinenti all’impiego che deve essere ricoperto mediante la procedura di assunzione e che sono estranee alla durata determinata del rapporto di lavoro che intercorre tra il lavoratore e il suo datore di lavoro, detto trattamento può essere giustificato, ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro.
La Corte, sulla base di siffatte argomentazioni, conferma che “le differenze nell’attività lavorativa tra i giudici di pace e i magistrati professionali, potrebbero essere idonei a rispondere ad una reale necessità e che le differenze di trattamento esistenti tra tali due categorie, anche in materia di ferie annuali retribuite, potrebbero essere considerate proporzionate agli obiettivi da esse perseguiti”.
Per l’effetto, la Corte dichiara “che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell’ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.