Il Tribunale di Torre Annunziata, in persona del Giudice Monocratico Presidente dott.ssa Marianna Lopiano, con l’Ordinanza n. cronol. 1491/2018 del 21.02.2018, pronunciata nel procedimento rg n. 3307/2017, avente ad oggetto la domanda di reintegra nel possesso di un’area, così stabiliva: “P.Q.M. Visti gli artt. 669 sexies, 669 octies cpa, 703 cpc e 1168 cc, 1) accoglie il ricorso e, per l’effetto, ordina a S. G. di reitengrare A. A. nel possesso dello spazio retrostante l’ingresso principale del fabbricato in Boscoreale, alla via M., oggetto di controversia (meglio descritto in atti), mediante la rimozione della catena con lucchetto di ferro apposta lungo il varco di accesso e del lucchetto in ferro apposto sulla porta che dallo spazio suddetto consente l’accesso al piano cantinato del fabbricato in comunione tra le parti”.
Nel caso specifico, il Tribunale riteneva che sulla base delle risultanze acquisite — ovviamente nei limiti della sommarietà di cognizione che caratterizza detta fase dell’azione possessoria e ferma restando la possibilità di approfondimenti istruttori nella eventuale fase di merito — fosse possibile riconoscere in capo alla parte ricorrente una situazione possessoria tutelabile ed attribuire alla parte resistente una condotta privativa.
Al riguardo il Tribunale di Torre Annunziata evidenziava che oggetto del giudizio era esclusivamente la dedotta lesione della situazione fattuale di possesso dell’area in contestazione perpetrata mediate l’apposizione di una catena con lucchetto all’ingresso dell’area medesima e di un lucchetto alla porta in ferro che da detta area conduceva al piano cantinato.
Il Giudice, in particolare, segnalava che “poiché ciò che rivela ai fini del decidere è la sola situazione fattuale, la cognizione del giudicante non può che essere limitata ai profili significativi in tal senso, restando sostanzialmente preclusa ogni valutazione sugli aspetti petitori”.
Il Giudicante, a questo punto, ricordava che le azioni possessorie erano destinate ad assicurare l’immediata tutela contro la privazione violenta e clandestina o la menomazione del possesso inteso come esercizio di fatti del potere sulla cosa, espresso in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di diritto reale. “Di qui la irrilevanza, ai fini della tutela apprestata dalle azioni possessorie, della frequenza e delle modalità di esercizio del possesso, essendo l’azione di reintegrazione data a tutela di qualunque possesso, anche se illegittimo o abusivo, purché abbia i caratteri esteriori della proprietà o di altro diritto reale, sempre che il potere si fatto non venga esercitati per mera tolleranza dell’avente diritto (Cass. 15.06.1991 n. 6772; Cass. 21.05.1987 n. 4625) e che il ricorrente fornisca adeguata dimostrazione di siffatto godimento”.
Ciò premesso, il Giudicante soggiungeva che “si ha … spoglio del possesso, tutelabile ex art. 1168 cc, ogni qual volta l’aggressione alla sfera possessoria incida direttamente sulla cosa costituente oggetto del possesso, sottraendola in tutto o in parte alla disponibilità del possesso, essendo ravvisabili i requisiti della violenza e clandestinità dello spoglio in qualsiasi attività costituente espressione di un antagonismo consapevole, manifesto o subdolo con la volontà, espressa o presunta, del possessore o del detentore (lo spoglio deve cioè essere compiuto con atti contrari alla volontà espressa o tacita del possessore e all’insaputa di questi).
Ebbene, secondo il convincimento del Giudice Monocratico una situazione di tal fatta sarebbe proprio quella prospettata nel ricorso introduttivo di lite.
Passando, quindi, ad esaminare nel merito la fondatezza della doglianza attorea, il Giudice osservava che i fatti dedotti in ricorso trovavano adeguato riscontro nelle dichiarazione precise e circostanziate rese dagli informatori indicati dal ricorrente.
All’affermazione del ricorrente, il resistente opponeva di aver sempre utilizzato e goduto in maniera piena ed esclusiva dell’immobile in questione, escludendo che il bene fosse stato mai utilizzato dalla parte ricorrente, al di fuori degli atti di normale tollerabilità discendenti dai rapporti familiari esistenti tre le parti e dai doveri di buon vicinato.
Pertanto, secondo la tesi del resistente, la parte ricorrente non era legittimata ad agire nel giudizio possessorio in quanto ella non aveva mai iniziato a possedere il bene in questione, se non per mera tolleranza grazie ai rapporti di amicizia, di affinità e di buon vicinato esistenti tre le parti.
Per Giudice singolo, invece, l’assunto del resistente non avrebbe trovato adeguato riscontro nelle dichiarazioni rese dagli informatori indicati dallo stesso resistente, che venivano ritenuti inattendibili.
Sulla scorta di tanto, il Giudicante reputava configurabile nella fattispecie gli estremi dello spoglio di cui all’art. 1168 cc.
In realtà, tale decisione presta il fianco a diverse critiche, relative innanzitutto alla errata valutazione delle prove raccolte, ma anche all’omessa valutazione del fumus boni iuris della parte ricorrente, cioè a dire la non palese infondatezza della pretesa dal punto di vista della legittimazione.
In sostanza, il Giudice Monocratico avrebbe dovuto accertare con maggiore puntualità che il ricorrente fosse realmente possessore o detentore qualificato e non già che il possesso fosse frutto di mera tolleranza, come sostenuto dal resistente.
Infatti, ai sensi dell’art. 1144 cc non possono costituire la base per l’acquisto del possesso gli atti compiuti con l’altrui tolleranza. È ormai pacifico in giurisprudenza che il rapporto di amicizia o di tolleranza derivanti da cd. rapporti di buon vicinato non costituiscono atti di possesso.
Appare utile, quindi, rammentare la giurisprudenza formatesi in materia.
Orbene, “colui il quale propone l’azione di reintegra nel possesso è tenuto a dimostrare specificamente il proprio precedente esercizio del potere di fatto sulla cosa, che va escluso in presenza di un godimento della stessa di modesta portata riconducibile alla tolleranza dell’avente diritto” (Tribunale Nola, sez. II, 05/02/2008).
Ancora, “gli atti di tolleranza che secondo il disposto di cui all’art. 1144 c.c. non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso traggono origine da un atteggiamento di condiscendenza del proprietario, da rapporti di amicizia e di buon vicinato a fronte di limitate e saltuarie ingerenze altrui e consistono in un godimento di portata modesta e tale da incidere molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore. Le ingerenze saltuarie e limitate compiute con l’altrui tolleranza non danno luogo, invero, a una situazione possessoria poiché non socialmente valutabili quali affermazioni di potere sulla cosa (Tribunale Cassino, 16/11/2009, n. 995).
In altri termini, se un soggetto esercita un potere di fatto su di un bene per mera tolleranza del proprietario, la condotta del primo non integra gli estremi del possesso e conseguentemente non vale ai fini del possesso ad usucapionem.
Su questo tema si è pronunciata anche la Suprema Corte, con l’interessantissima sentenza n. 13371 del 4 agosto 2015. Orbene, i Supremi Giudici ribadiscono che, in linea generale, l’altrui tolleranza sia inidonea all’acquisto per usucapione.
Gli atti di tolleranza si caratterizzano per un comportamento accondiscendente del titolare effettivo, il quale per mera cortesia, amicizia, buon vicinato, parentela, opportunità consente ad altri un godimento di modesta portata che incide marginalmente sul suo diritto.
La mera permissio da parte del proprietario, a favore di amici o vicini, esclude qualsivoglia pretesa possessoria sottesa al godimento che questi ultimi ne abbiano tratto.
La semplice tolleranza è connotata dalla transitorietà e dall’occasionalità, non già da un esercizio sistematico e reiterato del potere di fatto sulla cosa.
Ad esempio, “non inizierà a possedere una servitù di passaggio il vicino di casa che passa sul fondo confinante, non per inerzia del proprietario, ma solo grazie al rapporto di amicizia o comunque di tolleranza derivante dai cosiddetti rapporti di buon vicinato” (cfr Gazzoni; Cass. 8194/2001).
Conclusivamente, è possibile affermare che non possono costituire atti di possesso di una servitù di passaggio quelli compiuti con la tolleranza del proprietario del fondo, in quanto per tolleranza deve essere intesa la transitorietà, la saltuarietà ed il contegno dell’avente diritto, che benchè passivo, deve atteggiarsi come “permissio”, legittimante nel terzo l’affidamento circa la mera condiscendenza del dominus, ferma restando così la possibilità che subentri in ogni momento la proibizione del comportamento tollerato (Cass. 12133/1997).