Il concetto di “piattaforma continentale” si riferisce al suolo ed al sottosuolo marino contiguo alle coste e che costituisce il prolungamento naturale della terra emersa “fino all’orlo esterno del margine continentale, o fino ad una distanza di 200 miglia marine dalle linee di base dalle quali si misura la larghezza del mare territoriale, nel caso che l’orlo esterno del margine continentale si trovi a una distanza inferiore” (UNCLOS, art. 76).
Su tale spazio marino allo Stato costiero è riconosciuta una sovranità “funzionale”, limitata cioè al controllo, all’esplorazione e allo sfruttamento delle risorse della piattaforma.
I diritti funzionali dello Stato costiero sulla piattaforma continentale, invero, non dipendono dall’occupazione effettiva o fittizia o da qualsiasi specifica proclamazione, ma si acquistano in modo automatico.
Una questione molto dibattuta riguarda la delimitazione delle piattaforme continentali e delle zone economiche esclusive fra Stati che si fronteggiano e sono adiacenti.
In genere, la soluzione dovrebbe essere liberamente concordata dalle parti con la conclusione di trattati di delimitazione. In assenza di specifici accordi tra le parti resta problematica l’individuazione della norma generale da applicare.
L’art. 6 della Convenzione di Ginevra, in proposito, proponeva il criterio dell’equidistanza. Tale criterio consisteva nel tracciare una linea i cui punti fossero equidistanti dai punti delle rispettive linee di base del mare territoriale.
A partire dalla prima decisione, resa dalla Corte Internazionale di Giustizia il 20 febbraio 1969 nelle controversie tra Danimarca e Paesi Bassi, da un lato, e Germania Federale, dall’altro, sulla piattaforma continentale del Mare del Nord, i Giudici erano soliti enunciare, di volta in volta, le norme più adatte ad applicarsi ai casi concreti, facendo riscorso alla norma dell’equa soluzione.
Sul punto, la Corte Internazionale di Giustizia, con la sua copiosa giurisprudenza, ribadiva che non si trattava “di applicare l’equità semplicemente come una rappresentazione della giustizia astratta, ma di applicare una regola di diritto che prescrive il ricorso a equi principi, conformemente alle idee che hanno sempre ispirato lo sviluppo del regime giuridico della piattaforma continentale”.
La Corte confermava che “l’applicazione di equi principi deve pervenire a un equo risultato. Questo modo di esprimersi, per quanto corrente, non è del tutto soddisfacente, dato che l’aggettivo equo qualifica insieme il risultato da raggiungere e i mezzi da impiegare per pervenirvi. È tuttavia il risultato che importa: i principi sono subordinati all’obiettivo da raggiungere. L’equità di un principio deve essere apprezzata secondo l’utilità che esso presenta per raggiungere un equo risultato. Nessun principio è in sé equo: è l’equità della soluzione che gli conferisce questa qualità”. Ancora, i Giudici puntualizzavano che “l’equità non implica necessariamente l’uguaglianza. Non è questione di rifare completamente la natura e l’equità non impone che uno Stato privo di accesso al mare si veda attribuita una zona di piattaforma continentale, né di parificare la situazione di uno Stato le cui coste sono estese a quella di uno Stato le cui coste sono ridotte”.
In altre parole, la Corte chiariva che “non si tratta di rifare totalmente la geografia, in qualsiasi circostanza di fatto, ma, in presenza di una situazione geografica di quasi-uguaglianza tra più Stati, di rimediare a una particolarità non essenziale, dalla quale potrebbe derivare una differenza di trattamento ingiustificabile”.
L’orientamento giurisprudenziale veniva integralmente recepito dalla Convenzione di Montego Bay, che, all’art. 83, rimette la delimitazione in oggetto all’accordo tra gli Stati interessati allo scopo di raggiungere una equa soluzione.