Secondo la giurisprudenza il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all’altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività.
Il diritto di cronaca non esime dunque di per sè dal rispetto dell’altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. E’ vero che anche le vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale possono risultare di interesse pubblico, quando possano desumersene elementi di valutazione della personalità o della moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini. Ma non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perchè è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività (Cass., sez. 5^, 10 dicembre 1997, Novi, m. 209804).
La Suprema Corte, con la sentenza 9 ottobre 2007 n. 42067, è ferma nel ribadire che la divulgazione di un pettegolezzo (anche se corrispondente alla realtà) sul presunto retroscena del matrimonio, nel caso di specie, della moglie di un editore piacentino, è illecita, perché “il diritto di cronaca non può essere inteso come diritto a sollecitare la curiosità lubrica del pubblico”.
Dunque la Cassazione ha stabilito che sui giornali e sui media non è consentito fare pettegolezzi “lubrici” e fini a sé stessi sulle persone note quando tali chiacchiere e dicerie non sono in alcun modo utili per valutare la personalità o la moralità dei personaggi finiti sotto i riflettori, specie se il gossip riguarda i matrimoni dei cosiddetti vip.
Emiliana Matrone
Cassazione penale, sez. V, 9 ottobre 2007, n. 42067
Fatto Diritto
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Milano ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di D.A.P. e F.V. in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti di diffamazione aggravata e di violazione dei doveri di controllo nella direzione del quotidiano (OMISSIS), sul quale venne pubblicato il (OMISSIS) un articolo a firma D.A. P. ritenuto offensivo della reputazione di R.D., in quanto, nel ricostruire la vicenda della casa editrice (OMISSIS), riferì come “diceria da bar” la “storiella boccaccesca” che la signora R. era andata in sposa a P.M. per estinguere così i debiti del suo fidanzato dell’epoca verso l’editore.
Ricorrono per Cassazione D.A.P. e F.V. e propongono quattro motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo i ricorrenti deducono mancata acquisizione di prova decisiva e vizio di motivazione della decisione impugnata, lamentando che i Giudici d’appello abbiano negato l’ammissione di prove già richieste in primo grado a dimostrazione della verità del fatto addebitato alla querelante e abbiano poi contraddittoriamente ritenuto carente di prova tale fatto. Contesta che la prova richiesta fosse inammissibile a norma dell’art. 194 c.p.p., in quanto riferita a “dicerie da bar”, perchè il teste indicato aveva in realtà inteso così coprire la sua fonte.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono violazione della legge penale e vizio di motivazione della decisione impugnata, lamentando che i Giudici del merito abbiano erroneamente ritenuto i fatti controversi non pertinenti alla vicenda della casa editrice (OMISSIS) narrata nell’articolo e abbiano illogicamente escluso la rilevanza pubblica di tali fatti sol perchè non dimostrati.
Con il terzo motivo i ricorrenti deducono violazione della legge penale e vizio di motivazione nella determinazione della misura della pena, lamentando che le circostanze attenuanti generiche siano state dichiarate solo equivalenti alle aggravanti contestate e la pena base sia stata fissata in misura superiore al minimo edittale, senza considerare adeguatamente la scarsa gravità del fatto. Aggiunge in particolare F.V. che l’aggravante di cui alla L. n. 47 del 1948, art. 13, non è applicabile al reato di cui all’art. 57 c.p., sicchè è stato erroneamente applicato nei suoi confronti l’art. 69 c.p..
Con il quarto motivo i ricorrenti deducono violazione dell’art. 82 c.p.p. e art. 152 c.p., lamentando l’omessa dichiarazione dell’intervenuta revoca della costituzione di parte civile e della querela in conseguenza di una transazione sui danni.
2. I due primi motivi del ricorso sono infondati.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all’altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività.
Il diritto di cronaca non esime dunque di per sè dal rispetto dell’altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. E’ vero che anche le vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale possono risultare di interesse pubblico, quando possano desumersene elementi di valutazione della personalità o della moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini. Ma non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perchè è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività (Cass., sez. 5^, 10 dicembre 1997, Novi, m. 209804).
Nel caso in esame il fatto di interesse pubblico sul quale il quotidiano riferiva era la vicenda anche giudiziaria della famiglia P., in quanto connessa alla storia di un quotidiano locale fondato dal defunto P.E.. E in questa prospettiva non aveva alcuna rilevanza il pettegolezzo sul presunto retroscena del matrimonio di P.M. con R.D., perchè il diritto di cronaca non può essere inteso come diritto a sollecitare la curiosità lubrica del pubblico.
Non erano pertanto ammissibili per irrilevanza manifesta le prove sulla dedotta veridicità del presunto retroscena, perchè ne sarebbe stata comunque illecita la divulgazione, anche se corrispondente alla realtà.
3. Il terzo motivo del ricorso è inammissibile nella parte in cui ne censura la valutazione di gravità del fatto, perchè attiene al merito della decisione impugnata. E’ fondato nella parte in cui cen- sura la mancata applicazione a F.V. della riduzione di pena conseguente al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Essendo indiscusso infatti che l’art. 57 c.p., prevede una fattispecie di reato autonoma rispetto a quella della diffamazione, che ne costituisce l’evento (Cass., sez. 1^, 10 dicembre 1990, Bonanno, m. 186159), le circostanze aggravanti contestate per il delitto di diffamazione non sono riferibili anche al delitto previsto dall’art. 57 c.p., sebbene incidano sulla misura della pena irrogabile per tale reato. Ne consegue che la pena di seicento Euro di multa irrogata a F.V. va ulteriormente ridotta a quattrocento euro di multa in applicazione dell’art. 62 bis c.p..
4. Manifestamente infondato è infine il quarto motivo del ricorso, con il quale i ricorrenti deducono una revoca tacita della querela e della costituzione di parte civile in conseguenza di una composizione amichevole intervenuta con la querelante. L’art. 82 c.p.p., richiede infatti la forma espressa per la revoca della costituzione di parte civile, attribuendo il significato di revoca tacita solo al sopravvenuto esercizio dell’azione in sede civile o alla mancata formulazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado, essendo ormai indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che non costituisce revoca tacita della costituzione la mancata comparizione della parte civile in appello (Cass., sez. un., 13 dicembre 1995, Clarke, m. 203430), posto che “le conclusioni rassegnate in primo grado restano valide in ogni stato e grado del processo” (Cass., sez. 4^, 8 novembre 1995, Polo, m. 203535).
Altrettanto indiscusso è poi in giurisprudenza che la revoca della querela non può desumersi dall’accettazione del risarcimento dei danni (Cass., Sez. 5^, 28 novembre 1997, Panza, m. 209798).
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena irrogata a F.V., che determina in Euro 400,00 di multa. Rigetta nel resto il ricorso di F..
Rigetta il ricorso di D.A.P., che condanna al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2007