In giurisprudenza è consolidato il principio secondo cui, il sopravvenuto annullamento giurisdizionale del verbale di aggiudicazione comporta che nessun effetto può essere riconosciuto al provvedimento invalido (ed agli atti presupposti ad evidenza pubblica su cui era fondato) fin dal momento del suo venire in essere e ai diritti soggettivi dallo stesso attribuiti in quanto sorti da un atto non conforme alle condizioni prescritte dalla legge per la sua operatività.
L’annullamento del verbale di aggiudicazione, infatti, pone nel nulla l’intero effetto-vicenda derivato dall’aggiudicazione, a cominciare quindi dal contratto di appalto che vi è insito o che, ove stipulato in successivo momento, non ha alcuna autonomia propria e non costituisce la fonte dei diritti ed obblighi tra le parti, ma, assumendo il menzionato valore di mero atto formale e riproduttivo, è destinato a subire gli effetti del vizio che affligge il provvedimento cui è inscindibilmente collegato e a restare automaticamente e immediatamente caducato, senza necessità di pronunce costitutive del suo cessato effetto o di atti di ritiro dell’amministrazione, in conseguenza della pronunciata inefficacia del provvedimento amministrativo ex tunc, travolto dall’annullamento giurisdizionale.
Sulla base della richiamata argomentazione la Cassazione, nella sentenza 15 aprile 2008 n. 9906, soggiunge che la caducazione, in sede giurisdizionale o amministrativa, di atti della fase della formazione, attraverso i quali si è cioè formata in concreto la volontà contrattuale dell’Amministrazione, invero, priva quest’ultima, con efficacia ex tunc, della legittimazione a negoziare; in sostanza, l’organo amministrativo che ha stipulato il contratto, una volta che viene a cadere, con effetto ex tunc, uno degli atti del procedimento costitutivo della volontà dell’Amministrazione, come la deliberazione di contrattare, il bando o l’aggiudicazione, si trova nella condizione di aver stipulato iniure, privo della legittimazione che gli è stata conferita dai precedenti atti amministrativi.
Emiliana Matrone
Cassazione – Sezione prima – sentenza 15 aprile 2008, n. 9906
Svolgimento del processo
M. Antonio, titolare dell’omonima impresa, conveniva in giudizio, con citazione notificata il 2 novembre 1997, davanti al Tribunale di Brindisi, il Comune di San Pietro Vernotico chiedendo che venisse dichiarato risolto il contratto di appalto 10 gennaio 1989 per inadempimento del Comune e la condanna del medesimo Comune al risarcimento dei danni, quantificati in L. 221.403.219, di cui L. 213.971.459 per lucro cessante e L. 7.431.760 per danno emergente, oltre rivalutazione e interessi.
A sostegno della propria pretesa, l’attore deduceva che, con delibera della Giunta municipale del 4 ottobre 1998, era stato approvato il verbale di gara del 15 settembre 1989 e disposto l’affidamento alla impresa aggiudicatala dei lavori di costruzione di una nuova sede della Pretura; che il contratto di appalto era stato stipulato il 10 gennaio 1989; che, in base all’art. 8 di tale contratto, esso attore aveva depositato la somma di L. 6.176.260 per spese contrattuali, registrazione, ecc; che aveva iniziato i lavori realizzando la recinzione e alcuni scavi, lavori peraltro sospesi a seguito di ordinanza del Consiglio di Stato n. 251 del 1989 intervenuta nei giudizi proposti per l’annullamento dell’atto di aggiudicazione; che con sentenza n. 85/92, il Tar Puglia, Sez. di Lecce, aveva annullato il verbale di gara e l’intero procedimento di aggiudicazione; che il Comune non aveva deliberato di recedere dal contratto ed aveva dato esecuzione alla decisione del Tar rinnovando la gara; che esso attore aveva quindi chiesto al Comune di deliberare lo scioglimento del contratto e il risarcimento dei danni; che tali richieste erano state disattese dal Comune.
Costituitosi il contraddittorio, il Comune di San Pietro Vernotico rilevava che il contratto stipulato con l’attore doveva ritenersi automaticamente caducato a seguito dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione e che non era comunque configurabile una responsabilità della P.a. per culpa in contraendo.
Il Tribunale di Brindisi, con sentenza depositata il 18 maggio 2000, rigettava la domanda di risoluzione del contratto e accoglieva invece la domanda di risarcimento danni limitatamente alla somma richiesta a titolo di danno emergente.
Avverso tale sentenza proponeva appello il M. , cui resisteva il Comune, il quale proponeva altresì appello incidentale deducendo che il M. non aveva diritto ad alcun risarcimento dei danni né a titolo di responsabilità contrattuale né a titolo di responsabilità extracontrattuale. La Corte d’appello di Lecce, con sentenza depositata il 29 aprile 2003, rigettava il gravame principale e accoglieva quello incidentale.
La Corte riteneva che l’avvenuto annullamento dell’aggiudicazione avesse travolto il contratto di appalto successivamente stipulato, a sua volta invalido sin dall’origine, con la conseguenza che l’accertamento di tale invalidità, compiuto incidenter tantum dal primo giudice, avendo efficacia retroattiva tra le parti, precludeva l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto stesso per inadempimento del Comune, posto che una simile domanda presuppone che il contratto sia valido ed efficace.
Quanto all’appello incidentale, la Corte rilevava che la domanda risarcitoria del M. era fondata sulla responsabilità contrattuale della stazione appaltante che, a dire del M. , pur non recedendo dal contratto, non gli aveva consentito di eseguire i lavori né gli aveva comunque corrisposto il compenso pattuito. Il Tribunale, osservava la Corte, pur avendo escluso la sussistenza di una responsabilità contrattuale, anziché rigettare la domanda, aveva affermato la responsabilità extracontrattuale del Comune, così accogliendo una domanda diversa da quella proposta e incorrendo nel vizio di ultrapetizione. Peraltro, come dedotto dall’appellante incidentale, l’unico danno risarcibile a titolo di responsabilità extracontrattuale, era quello derivante dalla perdita di chance, sicché, una volta escluso tale tipo di danno, null’altro poteva essere riconosciuto all’appaltatore ex art. 2043 cod. civ.. In proposito, la Corte rilevava che il Tribunale non aveva fatto corretta applicazione della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 500 del 1999, perché nel caso di specie si era in presenza di un interesse legittimo pretensivo, sostanziantesi nell’aspirazione del M. ad ottenere un accrescimento della propria sfera di utilità attraverso l’aggiudicazione, e cioè l’interesse alla stipulazione del contratto. E, poiché il Comune aveva ripetuto la gara a seguito dell’annullamento di quella precedente e il M. vi aveva partecipato non risultando vincitore, doveva ritenersi che il M. non avesse titolo all’effettivo conseguimento del bene della vita avuto di mira, con la conseguenza che l’illegittimo comportamento della P.a. non aveva violato alcun suo interesse meritevole di tutela.
La Corte riteneva poi che il Tribunale aveva errato nel affermare che l’illegittimo svolgimento della procedura avesse pregiudicato un altro interesse sotteso all’interesse legittimo del M. , e cioè l’interesse (negativo) a non stipulare un contratto invalido, sopportando inutili spese e perdendo altre favorevoli occasioni contrattuali. Invero, osservava sul punto la Corte, non esiste alcuna norma che attribuisca alla P.a. il potere di sacrificare l’interesse del privato a non stipulare contratti invalidi, sicché non poteva neanche ipotizzarsi un interesse del privato al legittimo esercizio di tale potere. Sicché, anche ammesso che nella specie fosse stato leso l’interesse del M. a non stipulare contratti invalidi, non era comunque configurabile una responsabilità aquiliana della P.a. per violazione di interessi legittimi, potendosi al più ipotizzare la sussistenza di una responsabilità precontrattuale, ma un simile titolo di responsabilità non era stato dedotto dall’appellante. In accoglimento dell’appello incidentale, quindi, la Corte d’appello escludeva il diritto del M. al risarcimento del danno e alle richieste restituzioni, compensando interamente tra le parti le spese del doppio grado.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’Impresa M. Antonio, sulla base di tre motivi, cui resiste con controricorso il Comune di San Pietro Vernotico; entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
Con un primo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., con riferimento all’accoglimento dell’appello incidentale. Il ricorrente rileva che la Corte d’appello ha accolto l’appello incidentale precisando che il Tribunale, accertata l’invalidità del contratto, avrebbe dovuto rigettare la domanda e che, invece, affermando la responsabilità extracontrattuale del Comune, aveva accolto una domanda diversa così incorrendo nel vizio di ultrapetizione. In realtà, osserva il M. , il vizio ravvisato dalla Corte d’appello non era stato dedotto dal Comune nel proprio appello incidentale. Il Comune, infatti, aveva precisato che non poteva essere riconosciuta responsabilità extracontrattuale “essendo stato già escluso dallo stesso giudice di 1^ grado il danno individuabile nella perdita di chance”. La statuizione relativa al risarcimento del danno emergente, quindi, doveva considerarsi passata in giudicato.
Il motivo è infondato.
Dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso emerge che, con l’appello incidentale, il Comune ha inteso contestare il diritto del M. ad ottenere il risarcimento dei danni, sia di quelli riconducibili a responsabilità contrattuale, sia di quelli, riconosciuti dal Tribunale, ascrivibili al diverso titolo di responsabilità extracontrattuale. La Corte d’appello, nel rilevare che il Tribunale, pronunciando la condanna del Comune al risarcimento dei danni per un titolo di responsabilità espressamente qualificata come extracontrattuale, aveva pronunciato su una domanda non proposta, e nell’accogliere conseguentemente l’appello incidentale, ha quindi condotto il proprio esame nell’ambito del motivo di gravame proposto dall’appellante incidentale, non incorrendo pertanto nel denunciato vizio di ultrapetizione.
Si deve peraltro aggiungere che la Corte d’appello ha anche escluso la sussistenza in concreto della responsabilità extracontrattuale, affermando che l’unico danno risarcibile a tale titolo era quello derivante dalla cd. perdita di chance, correttamente ritenuto dal Tribunale insussistente, in quanto l’Impresa aveva poi partecipato alla successiva gara indetta dal Comune dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, senza aggiudicarsela. E tale affermazione della Corte d’appello non ha formato oggetto di specifica censura e comunque appare immune da vizi logico-giuridici.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce vizio di motivazione sotto due diversi profili, entrambi afferenti alla reiezione della domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di appalto. Da un lato, il ricorrente osserva che l’affermazione della Corte d’appello secondo cui “il contratto di appalto intercorso tra le parti è divenuto invalido in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione: l’accertamento di tale invalidità … avendo effetto retroattivo tra le parti, precluderebbe l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto, che evidentemente presuppone che il contratto stesso sia valido ed efficace”, sarebbe contraddittoria in quanto, o si accede alla teoria della caducazione automatica del contratto di appalto e si accetta che l’accertata invalidità dell’aggiudicazione si riverbera automaticamente sul contratto, oppure si sostiene, come fa la Corte d’appello, la teoria della invalidità derivata, nella forma della annullabilità del contratto, ma in tal modo si ammette la validità del contratto stesso fino alla pronuncia costitutiva dell’autorità giudiziaria, nel caso mai intervenuta. L’azione proposta da esso ricorrente, volta ad ottenere la risoluzione del contratto, aveva “l’obiettivo di rimuovere un contratto valido (pur se annullabile) ma che non può avere esecuzione per inadempimento del Comune”. La Corte d’appello si è quindi limitata ad affermare che il contratto era annullabile senza preoccuparsi che lo stesso non era stato annullato.
Sotto un diverso profilo, il ricorrente denuncia un vizio di omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, rilevando che nell’atto di appello aveva contestato l’impostazione del Tribunale secondo cui, in tema di eccezione di annullamento, l’espressione “convenuta per l’esecuzione del contratto” va intesa in senso così ampio da comprendere anche l’azione diretta ad accertare che la controparte non ha adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto annullabile.
Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 1218, 1223 e 2043 cod. civ. e, muovendo dalla premessa che il contratto di appalto non è stato mai annullato e continua quindi ad esistere con una sua propria autonomia e ad essere fonte di posizioni di diritto soggettivo, censura la sentenza impugnata per avere escluso dall’ambito degli interessi giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela le posizioni delle parti che, pur rivelandosi a posteriori non definitive e intermedie, sono tuttavia connesse ad azioni amministrative nelle quali possono riconoscersi interessi volti al mantenimento delle posizioni acquisite. E, nella specie, non vi era dubbio che esisteva un logico e legittimo affidamento nella impresa M. , fondato sulla stipulazione del contratto di appalto a cui erano seguiti alcuni adempimenti, quali la prestazione di una cauzione, accettata dal Comune, e l’inizio della esecuzione del contratto. Si era cioè in presenza di una situazione in cui il collegamento con il bene della vita si era già consolidato in virtù della stipulazione di un contratto di appalto, e tanto bastava per pretendere la riparazione delle conseguenze patrimoniali sfavorevoli dell’illegittimità dell’azione amministrativa. La posizione della impresa, indubbiamente lesa dal sopravvenuto annullamento del procedimento di aggiudicazione, che è cosa diversa dall’annullamento del contratto di appalto, andava tutelata.
La titolarità del potere amministrativo, osserva il ricorrente, vale come causa di giustificazione idonea a sacrificare l’interesse del privato a non stipulare contratti ove si sia impedito il conseguimento di un bene cui il privato stesso non poteva accedere; ma altrettanto non potrebbe affermarsi nel caso in cui il bene della vita sia già acquisito alla sfera giuridica soggettiva a seguito della stipulazione del contratto. Il Comune che, a seguito dell’aggiudicazione agiva iure prlvatorum, avrebbe quindi dovuto procedere all’annullamento del contratto non essendogli consentito travolgerlo attraverso l’aggiudicazione ad altra impresa. Esaurita la fase della evidenza pubblica, dinnanzi ad un contratto di appalto al quale si era già data esecuzione non sarebbe stata configurabile, al contrario di quanto ipotizzato dalla Corte d’appello, una responsabilità precontrattuale, atteso che “la discrezionalità dell’Amministrazione, ormai al di fuori dall’ambito delle trattative, poggiava su un pienamente legittimo affidamento ingenerato nell’impresa M. , la cui posizione era indiscutibilmente da qualificarsi in termini di diritto soggettivo”. Il mancato annullamento del contratto di appalto aveva ingenerato in esso ricorrente la legittima convinzione di poter confidare nel consolidamento della propria posizione contrattuale; aveva cioè dato luogo ad una vera e propria posizione da tutelare, e in particolare ad una posizione di diritto soggettivo, sicché deve ritenersi erronea la qualificazione di detta posizione in termini di interesse legittimo. In ogni caso, osserva il ricorrente, sarebbe anche erronea e incomprensibile l’esclusione, dinnanzi ad una dichiarata posizione di interesse legittimo pretensivo, del diritto al risarcimento dei danni subiti per avere sopportato le spese di registrazione del contratto e di prestazione di fideiussione.
Il secondo e il terzo motivo, che per ragioni di connessione, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo cui, il sopravvenuto annullamento giurisdizionale del verbale di aggiudicazione comporta che nessun effetto può essere riconosciuto al provvedimento invalido (ed agli atti presupposti ad evidenza pubblica su cui era fondato) fin dal momento del suo venire in essere e ai diritti soggettivi dallo stesso attribuiti in quanto sorti da un atto non conforme alle condizioni prescritte dalla legge per la sua operatività. L’annullamento del verbale di aggiudicazione, infatti, pone nel nulla l’intero effetto-vicenda derivato dall’aggiudicazione, a cominciare quindi dal contratto di appalto che vi è insito o che, ove stipulato in successivo momento, non ha alcuna autonomia propria e non costituisce la fonte dei diritti ed obblighi tra le parti, ma, assumendo il menzionato valore di mero atto formale e riproduttivo, è destinato a subire gli effetti del vizio che affligge il provvedimento cui è inscindibilmente collegato e a restare automaticamente e immediatamente caducato, senza necessità di pronunce costitutive del suo cessato effetto o di atti di ritiro dell’amministrazione, in conseguenza della pronunciata inefficacia del provvedimento amministrativo ex tunc, travolto dall’annullamento giurisdizionale (ex plurimis, Cass., n. 7481 del 2007; Cass., n. 12629 del 2006; Cass., n. 17673 del 2004). La caducazione, in sede giurisdizionale o amministrativa, di atti della fase della formazione, attraverso i quali si è cioè formata in concreto la volontà contrattuale dell’Amministrazione, invero, priva quest’ultima, con efficacia ex tunc, della legittimazione a negoziare; in sostanza, l’organo amministrativo che ha stipulato il contratto, una volta che viene a cadere, con effetto ex tunc, uno degli atti del procedimento costitutivo della volontà dell’Amministrazione, come la deliberazione di contrattare, il bando o l’aggiudicazione, si trova nella condizione di aver stipulato iniure, privo della legittimazione che gli è stata conferita dai precedenti atti amministrativi.
L’annullamento della fase sostanziale dell’aggiudicazione segna, in via retroattiva, la carenza di uno dei presupposti di efficacia del contratto, che, pertanto, resta definitivamente privato dei suoi effetti giuridici.
L’automatica invalidità degli atti del procedimento incisi dalla pronuncia giurisdizionale è idonea a mutare i termini dell’ipotesi contrattuale intorno alla quale si è determinata la volontà dei partecipanti e la formazione delle singole offerte, e ciò anche nel caso in cui l’aggiudicatario abbia posto in essere, nelle more del giudizio, un’attività riconducibile alla prestazione dovuta in forza della relazione contrattuale instaurata per effetto dell’aggiudicazione. Tale attività – a parte il fatto di costituire evento temporalmente successivo ed esterno allo svolgimento della procedura (che ne ha costituito il presupposto) – una volta annullata l’aggiudicazione, è, infatti, destinata ad assumere le connotazioni di un’attività di fatto, in forza della proiezione ex tunc degli effetti dell’annullamento.
Quanto dovuto all’aggiudicatario per i lavori posti in essere risponde a logiche totalmente diverse da quelle che presiedono alla controprestazione, così da non potersi definire “prezzo” o comunque corrispettivo della prestazione resa, bensì, esclusivamente indennità, cui l’escluso ha titolo secondo le regole del diritto comune, derivanti dall’art. 2041 c.c. (così, Cass., n. 7481 del 2007). Correttamente, dunque, la Corte d’appello ha rigettato la domanda di risoluzione del contratto di appalto, giacché l’annullamento dell’aggiudicazione ha comportato il venir meno, senza necessità di alcuna pronuncia costitutiva, quale quella richiesta dal ricorrente. Le censure in esame presuppongono, invece, la necessità di una pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento dell’amministrazione, e non possono quindi trovare accoglimento.
Si deve solo aggiungere che correttamente la Corte d’appello ha ricondotto il possibile profilo di responsabilità dell’amministrazione, a seguito dell’annullamento dell’atto di aggiudicazione alla responsabilità precontrattuale, ma altrettanto correttamente ha ritenuto che una simile domanda non potesse essere accolta perché non proposta. E sul punto non risultano formulate censure specifiche volte a dimostrare la proposizione con l’atto di citazione di una domanda fondata su tale tipo di responsabilità.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.100,00, di cui Euro 8.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.