a cura di don Giuseppe Matrone
“Spes non confundit” è il titolo assegnato alla Bolla Papale di indizione del Giubileo Ordinario per l’anno 2025.
Ma cos’è una Bolla Papale? Non c’è una definizione esatta nel Codice di Diritto Canonico o nelle Norme Vaticane, poiché la Bolla nasce come una lettera di un Vescovo “bollata” col sigillo del suo anello. Quindi, anzitutto, “Spes non confundit” è una lettera del Santo Padre, contenente in sé i caratteri di documenti diversi, in considerazione dei diversi messaggi che fornisce ai destinatari. Si tratta, dunque, di un atto complesso, dove si ritrovano, in primo luogo, alcuni elementi propri della Enciclica, cioè di una Lettera Apostolica indirizzata dal Papa ai vescovi ed ai fedeli di tutto il mondo su argomenti riguardanti di dottrina religiosa o sociale. Per altro verso, contiene dei comandi, come una legge e perciò ha i caratteri propri dei decreti generali: «con i quali dal legislatore competente vengono date disposizioni comuni per una comunità capace di ricevere una legge» (Can. 29). Ancora, contiene delle indicazioni per gli organi della Chiesa, come un Atto commonitòrio, che consiste in istruzioni e avvertimenti, dati dal governo ad un suo ambasciatore.
Per comprendere ancora meglio il documento in oggetto, dobbiamo chiarire chi è il Papa. Il Codice parla del Romano Pontefice nel Can. 331: «Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente».
A ciò si aggiungono i titoli del Papa secondo l’Annuario Pontificio, che sono: Vescovo di Roma; Vicario di Gesù Cristo; Successore del Principe degli Apostoli; Sommo Pontefice della Chiesa Universale; Patriarca d’Occidente; Primate d’Italia; Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana; Sovrano dello Stato della Città del Vaticano; Servus Servorum Dei.
Inoltre, il Papa è anche il Capo dello Stato più piccolo del mondo, secondo la Legge Fondamentale del Vaticano, Art. 1: «Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza della sovranità di governo […]».
Tutti questi elementi ci permettono di considerare come nella lettura della Bolla di indizione del Giubileo vadano a cambiare: i contenuti, il tono, gli effetti e le prospettive, a seconda di quale Autorità – secondo i vari caratteri propri del Pontefice – stia comunicando quel determinato messaggio.
Il primo punto focale, per comprendere le sottili e profonde differenze anzidette, è proprio nell’intestazione del documento, già prima che si inizi a leggerne il contenuto. Troviamo, come autore della Bolla nella sua intestazione: “Francesco, Vescovo di Roma, Servo dei servi di Dio; che scrive a quanti leggeranno questa lettera, affinché la speranza ricolmi il cuore”. Che l’autore sia Francesco non è banale, perché esprime già tutta la storicità della nostra fede ed il suo incarnarsi nella storia. Leggere “Francesco”, per noi credenti significa leggere un documento che contiene in sé tutta l’autorità di Pietro, perché Francesco è il successore del Principe degli Apostoli; quindi, nel suo nome noi leggiamo anche San Pietro, Simone il figlio di Giona. Siamo già ricondotti alla storia della salvezza e della Chiesa, facendo memoria della antichissima consuetudine di recarsi in Urbe per pregare davanti ai sepolcri di Pietro e Paolo, che risale ai primi secoli dell’era cristiana.
Tuttavia, colui che scrive, è anche il Vescovo di Roma. Come statuisce il Canone già visto, codesto titolo di “Ecclesiae Romanae Episcopus” mette in evidenza il legame tra la sede di Roma e il supremo pastore della Chiesa. Il particolare munus primaziale proprio del Romano Pontefice nella compagine della comunione ecclesiale gli deriva dall’essere Vescovo della santa sede di Roma. Il Santo Padre ottiene il primato di Pietro nella Chiesa universale e in lui gli permane il munus dell’Apostolo, in quanto gli succede personalmente nella cattedra di Roma, secondo una ininterrotta successione. Egli è colui che esprime il primato in quella comunione di carità che è la Chiesa.
Da ultimo, chi scrive è il Servo dei Servi di Dio. Questo incastra “Spes non confundit” nella missione di Pietro: cioè il suo essere pietra su cui il Signore fonda la Chiesa, principio visibile di unità nella fede e nella carità che perdura attraverso i diretti successori dell’Apostolo.
In tal modo, inizia l’annuncio dell’anno giubilare, con la “voce” del Vescovo che si rivolge all’umanità tutta, evidenziando la condizione dell’uomo moderno, che sembra aver perso la luce della speranza. I primi punti della Bolla sono pervasi da un tono d’autorità, con cui il Vescovo di Roma invita il mondo al pellegrinaggio. Proprio il pellegrinaggio è metafora della vita cristiana ed elemento fondamentale del Giubileo, ma è anche un richiamo al Can. 400: la cd. visita ad limina, per cui i Vescovi diocesani si devono recare nell’Urbe per venerare le tombe dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, loro padri e maestri nella fede, e presentarsi al Romano Pontefice, e vedere Pietro nel suo Successore.
Soprattutto nel n. 6 notiamo il tono di comando del legislatore. Proprio qui, a “parlare” è il Sommo Pontefice della Chiesa Universale, un primato che non gli viene da Roma, ma da Pietro: Roma è la prima sede in forza dell’essere la sede del Successore di San Pietro. Così: «aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano», la quale è Madre e Capo di tutte le Chiese della Città e del Mondo. Con questo ministero supremo si rivolge agli altri Vescovi per l’anno santo: «stabilisco», «si dia lettura», «si annunci», «si abbia cura», «terminerà».
Di qui in poi, la Bolla assume un tono pastorale con delle esortazioni in cui il Pontefice richiama l’attenzione dei cristiani a ravvivare la speranza nel quotidiano attraverso la fede. Allora, secondo la nostra lettura, colui che “parla” adesso è il Pastore della Chiesa Universale: colui che come vicario è posto a capo della Chiesa fondata e retta dal Cristo Risorto, che è il Pastore eterno di tutti i credenti. Per cui, seguire questo insegnamento è il criterio e la misura della comunione apostolica ed ecclesiale. In tal modo, i fedeli sono chiamati a vivere ed operare in accordo e unità con lui. Proprio perché «i fedeli sono tenuti all’obbligo di conservare sempre, anche nel loro modo di agire, la comunione con la Chiesa» (Can. 209).
È interessante notare, che al n. 10, circa l’attenzione e la cura per i detenuti, ad un certo punto la Bolla si rivolge «ai Governi», affinché «assumano iniziative», prevedano «amnistia o condono della pena» e «percorsi di reinserimento nella comunità». Qui non è solo il Pastore che si prende cura dei fratelli e delle sorelle in stato di detenzione, ma è anche il Capo di Stato, che “parla” – da pari – ai Governi del mondo, è il Sovrano dello Stato della Città del Vaticano che ha “voce” nel consesso delle Nazioni. Così, ugualmente, avviene al n. 16 in un appello particolare «alle Nazioni più benestanti» per condonare i debiti dei Paesi più poveri.
La Bolla di indizione del Giubileo prosegue concentrandosi sui temi della Teologia Escatologica, nella quale trova un posto privilegiato la speranza cristiana e la promessa di Cristo per la vita eterna. Qui si mette in luce, in modo particolare, «la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno e così l’indulgenza giubilare è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto perché ottengano piena misericordia». L’indulgenza aiuta il cammino di conversione e di penitenza del cristiano e contribuisce a purificarne il cuore. Nel Codice di Diritto Canonico «l’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi» (Can. 992). Secondo le parole di Papa Francesco, il peccato lascia il segno, porta con sé delle conseguenze. Chiamiamo questa macchia la pena temporale, che si può identificare nella inclinazione al male e nel bisogno di purificazione che rimane nel cuore del peccatore perdonato. L’indulgenza permette di eliminare questa pena temporale, cioè i resti del peccato rimasti dopo l’assoluzione sacramentale.
Al n. 23 troviamo un esempio fortissimo della sovranità di governo esercitata dal Pontefice, che si rivolge ad un organo principale della struttura ecclesiastica, la Penitenzieria Apostolica, dandole un ordine. Si legge: «La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare»; ed è chiaro, quindi, che solo l’autorità suprema può dare questo comando.
Di fatti, la Penitenzieria Apostolica emana le Norme per la disciplina delle indulgenze nell’anno giubilare, indirizzate a «tutti i fedeli veramente pentiti, escludendo qualsiasi affetto al peccato e mossi da spirito di carità e che, nel corso dell’Anno Santo, purificati attraverso il sacramento della penitenza e ristorati dalla Santa Comunione, pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, dal tesoro della Chiesa potranno conseguire pienissima Indulgenza, remissione e perdono dei loro peccati, da potersi applicare alle anime del Purgatorio in forma di suffragio».
Il testo si conclude con delle invocazioni alla Madre di Dio ed uno specifico richiamo al messaggio di Nostra Signora di Guadalupe.
Da ultimo, un auspicio del Pontefice per il Giubileo, che «sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio».