La Corte di Cassazione, nella Sentenza 13 agosto 2008 n. 21579, afferma che, ai fini della legittimità del licenziamento per soppressione del posto, il datore di lavoro deve provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato, con mansioni equivalenti, il lavoratore licenziato, nonché di avere ricevuto il rifiuto dal lavoratore ad essere adibito a mansioni inferiori confacenti al suo bagaglio professionale.
Emiliana Matrone
Cassazione Civile – Sez. Lavoro – Sentenza 13 agosto 2008 , n. 21579
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso proposto in data 25.2.2002 avanti al Tribunale di Oristano, in funzione di Giudice del Lavoro, D. V. convenne in giudizio la società L. srl e premesso che:
– aveva lavorato alle dipendenze della convenuta con la qualifica di impiegato di 4^ livello e con le mansioni di addetto alla contabilità e amministrazione, dal novembre 1997 al 10 agosto 2001, data in cui era stato licenziato con la motivazione che l’azienda non poteva “più avvalersi della sua collaborazione”;
– a seguito di sua specifica richiesta, la Società aveva esplicitato le ragioni del recesso, siccome “determinato dalla soppressione del posto di lavoro conseguente alla riorganizzazione aziendale”;
– il licenziamento era del tutto pretestuoso, come comprovato dalla circostanza che non vi era stata affatto la soppressione del posto di lavoro, che, dopo il suo licenziamento, era stato ricoperto da altra dipendente;
– il recesso era stato in effetti determinato da ragioni di carattere del tutto personale ed estranee al rapporto di lavoro ed alla asserita riorganizzazione aziendale, come comprovato da una lettera inviatagli dall’amministratrice della Società;
– la Società convenuta occupava più di quindici dipendenti e l’ultima retribuzione percepita era stata pari a L. 2.590.313;
ciò premesso, chiese, previa dichiarazione di illegittimità del licenziamento, la condanna della convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro, nonchè a risarcirgli il danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegrazione.
Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza della parte datoriale, il Giudice adito, ritenuta l’infondatezza delle questioni preliminari sollevate dalla convenuta, accolse la domanda. La Corte d’Appello di Cagliari, con sentenza in data 27.4 – 27.6.2005, accolse il gravame proposto dalla parte datoriale, assolvendola dalla domanda e ritenendo che il posto di lavoro occupato dal D. era stato definitivamente soppresso in dipendenza di una situazione economica non favorevole attraversata dalla Società nei primi anni 2000.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, D. V. ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità del ricorso e proponendo ricorso incidentale condizionato fondato su un unico motivo; ha inoltre depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi vanno riuniti, ex art. 335 c.p.c., siccome proposti avverso la medesima sentenza.
2. Deve preliminarmente esaminarsi l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente.
2.1 Quest’ultima osserva al riguardo che il ricorso risulta essere stato notificato a “L. srl, con sede in …omissis… in persona del suo amministratore unico, sig.ra N. R, nel suo domicilio eletto in Cagliari, Via Logudoro n. 24, nello studio dell’avv. Cesello Argiolas che l’ha difesa e rappresentata insieme all’avv. Giuseppe Longheu ne giudizio avanti la Corte d’Appello di Cagliari RG 216/04, a mani dell’avv. Pacini collega di studio incaricato”, se non che, sostiene la controricorrente, essa non aveva mai eletto domicilio in Cagliari presso l’avv. Argiolas (nè gli aveva mai rilasciato alcuna procura alle liti); infatti, in epigrafe al ricorso in appello, era stato erroneamente affermato che la società appellante, rappr.ta e difesa dall’avv. G. Longheu, è “elett.te dom.ta in Cagliari in Via Logudoro 24 presso lo studio dell’avv. Cesello Argiolas per delega a margine della memoria di costituzione de 14/04/02 ne giudizio di primo grado”, tale indicazione era stata frutto di un errore evidente (in cui, peraltro, era incorsa anche la Corte d’Appello, che in sentenza aveva indicato erroneamente i domicilio eletto della Società presso l’avv. Argiolas), poichè la procura alle liti rilasciata dalla Società a margine della predetta memoria di costituzione in primo grado non conteneva alcuna eiezione di domicilio in Cagliari, presso io studio dell’avv. Argiolas, bensì “in Macomer, Via Bechi Lucerna 1” presso il suo procuratore alle liti Avv. Giuseppe Longheu; quest’ultimo, d’altra parte, esercente nel foro di Oristano, con fatto d’appello non aveva provveduto all’elezione di domicilio (in Cagliari) prescritta dal R.D. n. 37 del 1934, art. 82; pertanto, sempre secondo l’assunto della controricorrente:
– il ricorso per Cassazione avrebbe potuto essere notificato unicamente al procuratore costituito in secondo grado, avv. Longheu, presso la cancelleria del Giudice a quo;
– la notificazione di tale atto, così come effettuata, doveva considerarsi inesistente, in quanto effettuata in un domicilio mai eletto nè dalla parte (con atto apposito), nè dal suo procuratore in appello (così come previsto dalle già citate norme integrative della professione di avvocato);
– ciò aveva determinato l’inammissibilità del ricorso.
2.2. Osserva il Collegio che, secondo il consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, la mancata elezione di domicilio presso il procuratore alle liti od altro soggetto nel corpo della procura non costituisce causa di nullità del mandato, non essendo tale elezione qualificabile come un suo requisito di validità (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 17418/2007; 561/2005; 3254/1995).
Ed invero deve rilevarsi che:
– nessuna norma del codice di rito prescrive, quale requisito di validità della procura alle liti, l’elezione di domicilio della parte (mandante) presso lo stesso procuratore nominato;
– a norma dell’art. 170 c.p.c., dopo la costituzione delle parti in giudizio, tutte le notificazioni e comunicazioni si fanno, salvo che la legge disponga altrimenti, ai procuratore costituito e nel suo domicilio, senza necessità che la parte abbia eletto domicilio presso di lui;
– Il R.D. n. 37 del 1934, art. 82, integra, poi, il contenuto precettivo dell’art. 170 c.p.c., stabilendo che i procuratori esercenti il proprio ufficio a di fuori della circoscrizione del Tribunale cui sono assegnati, devono, all’atto della costituzione, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario adito, intendendosi altrimenti il domicilio eletto presso la cancelleria di detto ufficio.
Costituendo dunque la procura e l’elezione di domicilio atti ontologicamente distinti (cfr, ex plurimis, Cass., n. 16707/2003), è stato altresì affermato che, ai fini dell’individuazione del luogo di notificazione dell’impugnazione, l’elezione di domicilio per il giudizio contenuta nell’atto introduttivo sottoscritto dal difensore, proprio in quanto proveniente dal difensore, prevale sulla diversa elezione di domicilio contenuta nella procura spillata al ricorso, la quale è atto della parte, la cui firma viene seguita da quella del difensore per la sola autentica (cfr, Cass., n. 16571/2005).
Ne discende che nessun rilievo, ai fini che qui ne occupano, può essere attribuito alla circostanza che, nella procura ad litem rilasciata per il primo grado di giudizio, non fosse contenuta l’eiezione di domicilio, in Cagliari, presso lo studio dell’avv. Argiolas, come invece erroneamente indicato nel ricorso d’appello. 2.3. Al contempo deve rilevarsi che, giusta il combinato disposto degli artt. 414 e 434 c.p.c., nelle controversie soggetto al rito del lavoro il ricorso d’appello deve contenere la residenza o il domicilio eletto del ricorrente nel comune in cui ha sede il giudice adito, cosicchè l’elezione di domicilio contenuta nel ricorso di secondo grado (come tale sottoscritto dal difensore) “in Cagliari in Via Logudoro 24 presso lo studio dell’avv. Cesello Argiolas” è rituale, valida ed efficace, indipendentemente dall’erronea indicazione ivi contenuta – stante la sua irrilevanza per i motivi anzidetti – in ordine alla sua avvenuta effettuazione con la delega a margine della memoria di costituzione di primo grado.
2.4. Ne discendono la ritualità della notificazione effettuata al domicilio eletto nei termini suddetti e l’infondatezza dell’eccezione all’esame.
3. Con l’unico motivo di ricorso incidentale viene denunciata violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1996, art. 6, L. n. 108 del 1990, art. 5, e art. 2697 c.c., nonchè difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale respinto il motivo di gravame con cui era stata riproposta l’eccezione, già disattesa dal primo Giudice, di improponibilità dell’azione, per non essere stato il licenziamento impugnato con atto scritto entro 60 giorni dalla sua intimazione.
3.1. Stante il carattere pregiudiziale della suddetta questione oggetto del ricorso incidentale, lo stesso deve essere esaminato con priorità rispetto a quello principale, ancorchè la ricorrente incidentale, già vittoriosa nel merito, io abbia proposto in forma condizionata all’accoglimento di quello principale (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 17192/2004; 8293/2007; 1582/2008).
3.2. La ricorrente incidentale lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare in base a quali atti, acquisiti al procedimento, abbia ritenuto che l’Ufficio del Lavoro aveva comunicato alla Società, entro il termine di sessanta giorni, la richiesta di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione; nè la Corte aveva chiarito, con sufficiente motivazione, perchè l’esperimento negativo del tentativo di conciliazione equivalesse ad impugnazione del licenziamento, stante il mancato riferimento a tale impugnazione ne verbale e il difetto del requisito della forma scritta richiesta ad substantiam; nè, ancora, si sarebbe potuta individuare nella lettera di convocazione la comunicazione al datore di lavoro di cui alla L. n. 108 del 1990, art. 5, comma 5, atteso che a detta comunicazione, in quanto atto dell’ufficio, non potrebbe attribuirsi natura di atto scritto di impugnativa, di valore negoziale, dispositivo e formale, previsto ad substantiam e riservato dalla legge al lavoratore.
3.3 La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermare reiteratamente che l’atto di impugnazione del licenziamento ha natura di negozio giuridico unilaterale recettizio, ex art. 1335 c.c., e, come tale, deve giungere a conoscenza del destinatario per produrre i suoi effetti; più in particolare, deve pervenire all’indirizzo de datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare; ne consegue che il deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione, non è sufficiente ad impedire la decadenza, ma è necessario a tal fine che la comunicazione della convocazione pervenga al datore di lavoro prima del termine di sessanta giorni previsto dalla legge, ovvero che i lavoratore provveda autonomamente a notificargli tale richiesta, senza attendere la comunicazione dell’Ufficio, onde evitare il rischio del maturarsi della decadenza (cfr, Cass., nn. 11116/2006; 9554/2001).
Ai riguardo è stato infatti osservato che, dalla natura ricettizia dell’atto di impugnazione discende l’applicabilità ad essa dell’art. 1334 c.c., e della relativa giurisprudenza di legittimità, secondo cui, per determinare nel destinatario la conoscenza di un atto unilaterale ricettizio, negoziale o non, la legge non impone alcun mezzo determinato, e ciò perchè la natura ricettizia dell’atto dipende dalla sua funzione, e non dalla forma con cui essa sia portata a conoscenza del destinatario.
Con la conseguenza che, salvi i casi in cui una forma determinata sia espressamente prescritta per legge o per volontà delle parti, deve ritenersi idoneo, al predetto fine, qualsiasi strumento di comunicazione, purchè esso sia congruo in concreto a farne apprendere compiutamente e nel suo giusto significato il contenuto; più in particolare la trasmissione dell’atto ricettizio dal mittente al destinatario potrà avvenire tanto in via diretta, quanto triangolare, “…nel senso che il terzo, invece di avere una funzione di mero supporto materiale, come di consueto, ha (…) il potere ufficioso di ricevere egli stesso la comunicazione, di esaminarla, di integrarla, e di disporne l’ulteriore corso al destinatario finale, tramite propri ufficiali”, poichè ciò che rileva “… è la provenienza dell’atto dal lavoratore, la forma scritta, e la sua iniziativa nel portarlo a conoscenza del datore di lavoro, o di altre persone cui compete di portarlo a conoscenza del datore” (cfr; Cass., n. 9554/2001, cit. in motivazione).
E’ rimasto così superato il lontano precedente di questa Corte (cfr., Cass., n. 8010/1991) a cui ha fatto richiamo il ricorrente incidentale, perchè ivi non veniva fatta distinzione tra il terzo che forma ed esprime la volontà impugnatoria del lavoratore in forza di un potere di rappresentanza, e deve essere perciò munito di procura scritta, e il terzo incaricato soltanto della fase di trasmissione. Un altro arresto di questa Corte ha poi ritenuto che, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata (in particolare tenendo conto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 276 del 2000 e n. 477 del 2002) delle norme applicabili in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, non è necessario che l’atto di impugnazione del licenziamento giunga a conoscenza del destinatario, ovvero, in particolare, che esso pervenga all’indirizzo del datore di lavoro, entro i sessanta giorni previsti dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare, in quanto, ai sensi dell’art. 410 c.p.c., comma 2, (cosi come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 36), il predetto termine (processuale con riflessi di natura sostanziale) si sospende a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione e divenendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (cfr, Cass., n. 14087/2006).
3.4. Nel caso all’esame, comunque, a Corte territoriale ha rilevato in fatto che “non solo l’ufficio del lavoro ha comunicato, entro il termine di sessanta giorni, alla società L. la richiesta di espletamento della procedura – obbligatoria di conciliazione ma addirittura entro lo stesso termine di decadenza si è tenuto il tentativo di conciliazione (in data 28 settembre 2001) al quale ha partecipato, per la datrice di lavoro, un rappresentante nella persona del sig. T.G.”, da ciò traendone la conseguenza della tempestività sia della manifestazione da parte del lavoratore della volontà di impugnare, sia dell’essere stata tale manifestazione di volontà portata a conoscenza della datrice di lavoro.
Ed invero deve osservarsi che nella argomentazione della Corte territoriale è implicito (siccome logicamente ovvio) i rilievo che la presenza del rappresentante della Società al tentativo di conciliazione (avvenuto entro il termine di decadenza) postula che, antecedentemente (e, perciò, parimenti entro il predetto termine), l’istanza di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione sia stata portata a conoscenza della Società. 3.5. Ne discende che la motivazione svolta, siccome coerente con i dati fattuali rilevati, priva di vizi logici e conforme ai principi di diritto sopra ricordati, si sottrae alle censure mosse con il ricorso incidentale, che deve pertanto essere rigettato.
4. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, nonchè omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, dolendosi che la Corte territoriale abbia ritenuto la legittimità del licenziamento, nonostante l’avvenuta successiva assunzione di altro dipendente adibito allo svolgimento delle stesse o di analoghe mansioni, siccome inquadrato ad un livello inferiore; doveva inoltre ritenersi apodittica la considerazione secondo cui, stante il diverso inquadramento, anche le mansioni sarebbero state “verosimilmente” diverse.
Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia, sotto diverso profilo, violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, nonchè omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, dolendosi che la Corte territoriale abbia omesso di considerare che la parte datoriale nulla aveva allegato e nulla si era offerta di provare in ordine alle ragioni di carattere organizzativo e produttivo a cui sarebbe stato collegato il licenziamento (se non l’asserito risparmio conseguente, appunto, al licenziamento), nè in ordine all’asserita ristrutturazione aziendale e alla sua incidenza sulla specifica posizione di lavoro occupata dal lavoratore licenziato, nè sull’impossibilità di impiegarlo nello stesso o in altri settori dell’attività produttiva, nè, infine circa (l’eventuale) incompatibilità della sua professionalità con o svolgimento dell’attività per la quale era stata assunta successivamente altra dipendente.
Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., nonchè omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, deducendo S’avvenuta violazione di tali norme per avere la Corte territoriale ritenuto la legittimità del licenziamento senza che il datore di lavoro avesse fornito la prova della sussistenza dei fatti costitutivi del provvedimento espulsivo.
I motivi, siccome tra loro strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
5. In ordine alla necessaria riferibilità del licenziamento ad iniziative del datore di lavoro collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo, la Corte territoriale, dopo avere premesso, nella parte espositiva della sentenza impugnata, che la parte datoriale aveva motivato il disposto licenziamento con la necessità della riduzione dei costi “mediante la riorganizzazione della struttura burocratica della società con la soppressione del posto di impiegato amministrativo di 3^ livello apparendo sufficienti le prestazioni fornite da quello di 5^ livello” e che tale necessità era discesa dalla notevole contrazione del volume delle vendite, dovute in parte alla chiusura di uno dei supermercati gestiti e, in parte, alla sfavorevole congiuntura economica, ha ritenuto, in punto di fatto, la fondatezza della dedotta contrazione degli utili, l’incontroversa chiusura del supermercato di …omissis… e, conseguentemente, la dipendenza della soppressione del posto di lavoro del D. dalla situazione economica non favorevole attraversata nei primi anni 2000 dalla Società.
Trattandosi di motivazione coerente con i dati fattuali rilevati e priva di vizi logici, le argomentazioni della Corte territoriale sfuggono alle censure svolte al riguardo dal ricorrente principale, dovendosi tener conto che, sempre secondo l’orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva (L. n. 604 del 1966, art. 3) deve essere valutato dal datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, poichè tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, attraverso un apprezzamento delle prove che è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 12554/1998; 7376/2001; 16163/2004).
6. Secondo quanto questa Corte ha avuto modo più volte di affermare, il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, L. n. 604 del 1966, ex art. 3, è determinato dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, cosicchè, ai fini della legittimità dello stesso, sul datore di lavoro incombe la prova sia della concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo, sia della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10554/2003); conseguentemente, ove nel breve periodo successivo si addivenga a nuove assunzioni, per ritenere raggiunta la prova della inutilizzabilità aliunde del lavoratore licenziato, il cui onere grava sul datore di lavoro, è necessario che questi indichi le mansioni affidate ai nuovi assunti, specificando le ragioni per cui esse non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 12548/1997; 12367/2003).
Al contempo, con specifico riferimento alla necessaria impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento alla organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 5893/1999; 12367/2003).
Deve poi rilevarsi che possono considerarsi equivalenti a quelle espletate le mansioni oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, si armonizzano con la professionalità già acquisita dai lavoratore nei corso del rapporto, si da impedirne la dequalificazione (cfr, ex plurimis, Cass., n. 7370/1990).
7. La Corte territoriale, svolgendo una valutazione delle emergenze probatorie coerente e priva di vizi logici (e che pertanto, come tale, non è censurabile in questa sede di legittimità) ha ritenuto che fosse stata fornita la prova dell’avvenuta definitiva soppressione del posto di lavoro del D. sulla base delle seguenti ragioni:
– il D. era inquadrato come impiegato amministrativo di 3^ livello, mentre la dipendente F.M.G., assunta dopo il licenziamento del D., era inquadrata nel 4^ livello;
– inoltre, giusta quanto dichiarato da un teste, mentre la F. “si occupa solo di contabilità”, il D. “affiancava l’amministratore”, – a diverso inquadramento non poteva che corrispondere un diverso livello di capacità, di autonomia e di responsabilità operativa dei dipendenti, che, pur essendo entrambi impiegati amministrativi, svolgevano “mansioni analoghe ma con un diverso grado di collaborazione con l’imprenditore”;
– in ordine alle dichiarazioni rese da altro teste, secondo cui la ” F. è stata adibita alle stesse mansioni” in precedenza svolte dal D., doveva rilevarsi da un lato la scarsa attendibilità di tale testimone, che, ex dipendente de L., aveva promosso una causa di lavoro contro la ex datrice di lavoro per mobbing; dall’altro che la circostanza che sia il D. che la F. svolgessero attività amministrativo – contabile, essendo entrambi due impiegati amministrativi, era circostanza certamente corrispondente a verità, ma che non diceva “niente circa il livello di autonomia, discrezionalità e responsabilità con fa quale tale attività veniva svolta che, verosimilmente, corrispondeva al diverso inquadramento dei due dipendenti il primo non a caso impiegato di concetto mentre la seconda all’impiegata d’ordine”.
In sostanza, sulla base degli accertamenti fattuali esplicitati nella sentenza impugnata, il D. svolgeva mansioni più ampie di quelle poi assegnate alla dipendente F., tanto che quest’ultima era stata inquadrata ad un livello inferiore.
Per conseguenza risulta fattualmente accertato che:
– le mansioni attribuite, dopo il licenziamento del D., alla dipendente F. erano compatibili con l’assetto aziendale nonostante l’intervenuta riorganizzazione dello stesso;
– tali mansioni rientravano anche nel bagaglio professionale del D.;
– l’adibizione del D. a tali mansioni avrebbe comportato un suo demansionamento.
8. Questa Corte, già con risalente giurisprudenza, ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 2103 c.c., la modifica in peius delle mansioni de lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione de lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l’esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma (cfr, Cass., n. 6441/1988).
Del pari è stato ritenuto che non costituisce violazione dell’art. 2103 c.c., un accordo sindacale che, in alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l’attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro più lungo (cfr, Cass., n. 9386/1993).
Le Sezioni Unite di questa Corte (cfr, Cass., SU, n. 7755/1998), in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rappresentato dalla sopravvenuta infermità permanente del lavoratore e dalla conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, hanno affermato, in sede di composizione di conflitto, che il recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato deve ritenersi legittimo non solo se risulta ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore, ma anche se, alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede, è esclusa la possibilità dello svolgimento di altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti ai sensi dell’art. 2103 c.c., e altresì, in difetto di altre soluzioni, a mansioni inferiori, purchè l’attività sia compatibile con l’idoneità del lavoratore e sia utilizzabile nell’impresa senza mutamenti dell’assetto organizzativo insindacabilmente scelto dall’imprenditore.
A quest’ultimo riguardo le Sezioni Unite hanno osservato che l’adibizione del lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, neppure configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.) prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 c.c., ed anche art. 35 Cost., comma 2).
Il testè ricordato orientamento interpretativo dette Sezioni Unite è stato poi seguito da altre pronunce di questa Corte rese in tema di licenziamento disposto per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10339/2000, ove pure viene rilevata a necessità che il lavoratore, sia pure senza forme rituali, abbia manifestato la sua disponibilità ad accettare rassegnazione a mansioni non equivalenti), mentre, in tema di recesso determinato da ragioni organizzative aziendali, altre pronunce hanno ritenuto che l’onere probatorio, a carico de datore di lavoro, della inutilizzabilità del lavoratore licenziato riguarda soltanto la cosiddetta mobilità orizzontale, ovvero la possibilità di questi di svolgere mansioni equivalenti, tenuto conto della sua specifica professionalità (cfr, ex plurimis, Cass., 12362/2003); secondo un orientamento parzialmente diverso è stata inoltre ritenuta la legittimità del licenziamento, nonostante che nella ricerca di possibili nuovi impieghi non fosse stata presa in considerazione la possibilità di ricorrere ad una dequalificazione concordata, semprechè il lavoratore non dimostri che tale soluzione sia dipesa da ostacoli alla conclusione di un patto di demansionamento frapposti dal datore di lavoro con un comportamento non improntato a buona fede (cfr, Cass., n. 16106/2001).
9. Osserva i Collegio che le ragioni poste a fondamento della ricordata pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755/1998 conservano piena validità anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale; anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisatile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell’impresa anzichè alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante i consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità de lavoratore). Al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore e nel consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni.
A quest’ultimo riguardo deve poi convenirsi che in tanto il consenso del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, abbia prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un’utilizzazione in mansioni inferiori, Pertanto, ove risulti, come nel caso all’esame, che un’utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni inferiori (nello specifico quelle a cui è stata adibita l’impiegata assunta dopo il licenziamento del D.), ma ricomprese nelle sue capacità professionali, sia compatibile con il nuovo assetto aziendale, il recesso del datore di lavoro per soppressione del posto di lavoro potrà ritenersi legittimo soltanto qualora la parte datoriale abbia ritualmente allegato e provato di avere prospettato a) lavoratore la possibilità del suo impiego in tali mansioni e che quest’ultimo non aveva espresso il proprio consenso al riguardo.
10. Poichè nessun accertamento è stato svolto sul punto dalla Corte territoriale, il ricorso principale deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al Giudice indicato in dispositivo che deciderà adeguandosi al seguente principio di diritto: “In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di avere prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purchè tali mansioni inferiori siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”.
Il Giudice del rinvio provvedere altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’Appello di Cagliari in diversa composizione.