La Corte di Appello di Salerno, Sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza, con la Sentenza del 1° febbraio 2013 n. 139, offre interessanti spunti interpretativi sulla recente riforma dell’appello, vigente a far data dall’11/09/2012.
Nel caso concreto, il Collegio salernitano, nell’esame di un ricorso avverso una sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore in materia di previdenza, si sofferma, in primo luogo, sull’ammissibilità del suddetto gravame.
Tale esame viene condotto alla luce della novella intervenuta per effetto dell’art. 54 del D.L. 83/2012 convertito (con modifiche) in L. 134/2012 e che riformula il primo comma dell’art. 434 c.p.c., nel modo seguente:
“Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall’articolo 414.
L’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità:
1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
Come è noto, la precedente formulazione dell’art. 434, co. I, c.p.c. era, invece, la seguente: “il ricorso deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte dall’art. 414”.
La Corte di Appello di Salerno, nel caso specifico, a conclusione di un complesso iter logico-argomentativo sulla portata della nuova formulazione dell’art. 434 c.p.c., finisce per dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
In particolare, il Collegio salernitano sostiene che “per l’ammissibilità dell’appello, è ora necessario indicare specificamente ed espressamente, senza aggiunte superflue o non pertinenti, di modo che il giudice possa averne immediata contezza senza essere costretto a defatiganti e dispersive ricerche, sia le precise parti della motivazione della sentenza che il ricorrente chiede con il supporto di adeguata e pertinente critica di eliminare, sia, ed in stretta ed ordinata corrispondenza, permettendo una immediata intelligibilità (nonché le eventuali valutazioni ex art. 436 bis c.p.c.), le parti motivazionali, idoneamente argomentate, che il ricorrente chiede che siano in sostituzione inserite, richieste adeguatamente corredate dalla altrettanto chiara, ordinata e pertinente indicazione degli elementi fondanti la denuncia di violazioni della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
Siffatta interpretazione va a confermare l’indirizzo espresso, nei primissimi tempi dall’entrata in vigore della riforma, dalla Corte di Appello di Roma (C. App. Roma, S.L., 15.1.2013, n. 7491/2012 R.G.), secondo cui: la nuova formulazione dell’art. 434, 1° comma, c.p.c “impone precisi oneri di forma dell’appello in quanto non si è limitata a codificare i più rigorosi orientamenti della S.C.(Cass., 24 novembre 2005, n. 24834n. 110; 28 luglio 2004, n. 14251, Cass., 24 novembre 2005, n. 24834n. 110; 28 luglio 2004, n. 14251) in punto di specificità dei motivi di appello, imposti dal vecchio testo dell’art. 434 cpc”, ma, prevedendo che l’appello deve essere, a pena di inammissibilità, motivato, ciò significa “che esso deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza: occorre, infatti, indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice”; di conseguenza “non solo non basterà riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo, dovendo tenersi conto anche delle parti di motivazione che non si condividono e su cui si sono basate le decisioni del primo giudice, ma occorrerà anche, per le singole statuizioni e per le singole parti di motivazione oggetto di doglianza, articolare le modifiche che il giudice di appello deve apportare, con attenta e precisa ricostruzione di tutte le conclusioni, anche di quelle formulate in via subordinate”; pertanto, “l’appello per superare il vaglio di ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve indicare espressamente le parti del provvedimento che vuole impugnare (profilo volitivo); per parti vanno intesi non solo i capi della decisione ma anche tutti i singoli segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la compongono quando assumano un rilievo autonomo (o di causalità) rispetto alla decisione; deve suggerire le modifiche che dovrebbero essere apportate al provvedimento con riguardo alla ricostruzione del fatto (profilo argomentativo); il rapporto di causa ad effetto fra la violazione di legge che è denunziata e l’esito della lite (profilo di causalità)”; tale opzione interpretativa è l’unica a poter garantire che nel giudizio di gravame sia assicurata la garanzia costituzionale di cui all’art. 111 Costituzione, nei segmenti intimamente correlati del giusto processo e della durata ragionevole, anche con riguardo alla disposizione contenuta nell’art. 436 bis c.p.c.”, sotto tale ultimo profilo evidenziandosi che è “assai più probabile che il giudice di appello riesca a pervenire in tempi ragionevoli alla definizione del processo quanto più i motivi si conformeranno in misura convincente allo stilema dell’art. 434 c.p.c.” e che “quanto più gli appelli saranno sviluppati nel rigoroso rispetto dell’art. 434 cpc tanto meno discrezionale sarà la valutazione di cui all’art. 436 bis c.p.c. e tanto più giusto sarà nel concreto il processo di appello”.
Anche nella fattispecie esaminata dalla Corte capitolina è stata ritenuta l’inammissibilità di gravame che, tra l’altro: pur contenendo l’indicazione delle singole statuizioni non condivise, aveva “omesso di indicare le modifiche proposte con riferimento a ciascuna parte della sentenza”; non si era estrinsecato “nella produzione di prospetti contabili alternativi rispetto a quelli allegati al ricorso di primo grado e posti a base della decisione impugnata” né “in una proposta di modifica” della statuizione su capo rilevante della decisione impugnata; aveva mancato di “individuare il testo di una nuova pronuncia volta a modificare le argomentazioni del giudice di prime cure” in ordine ad ulteriore capo rilevante; aveva in via subordinata richiesto la rideterminazione di somme senza indicare “in relazione alle singole doglianze i corrispondenti valori monetari delle diverse voci”; in definitiva, aveva impedito “direttamente al giudice di comprendere per quale motivo la sentenza dovrebbe essere riformata e in quali precisi termini debba essere motivata”.
In realtà, il dibattito sulla portata della riforma in parola è caratterizzato da orientamenti interpretativi profondamente divergenti tra loro.
Secondo un’interpretazione restrittiva, si potrebbe ritenere che, non essendo più espressamente richiesta la specificità dei motivi di impugnazione, il gravame sarebbe ammissibile ove il giudice, ad un esame complessivo dello stesso e nonostante la mancanza di specifiche critiche alle ragioni della decisione impugnata, sia, comunque, in grado di risalire alle “parti del provvedimento” appellate (eventualmente identificabili, in senso ancora più restrittivo, con riferimento al solo “dictum” contenuto nel dispositivo”), alle violazioni di legge denunciate ed alla conseguente riforma richiesta.
Non lontano da tale interpretazione si colloca la tesi secondo cui, pur non ravvisandosi effetti regressivi, non sussisterebbero nemmeno profili innovativi, e la novella si limiterebbe a confermare i risultati acquisiti dal diritto vivente circa l’onere di specificazione dei motivi.
All’estremo opposto, si sostiene, invece, che la novella abbia inteso profondamente incidere sulla formulazione dell’appello, esigendo non solo la proposizione di specifiche doglianze (ritenute indispensabili, dalla stessa dottrina ricordata, anche in teorica assenza di previsione normativa “dedicata”, bensì già solo “in base all’interesse ad impugnare”), ma che le stesse si articolino nella indicazione (necessariamente espressa e precisa) delle parti del provvedimento motivatamente contestate e delle modifiche (corrispondentemente motivazionali) che vengono richieste.
Il Collegio salernitano afferma di poter condividere, tra le opposte interpretazioni sopra ricordate, l’ultimo orientamento esposto, “seppure con la cautela imposta dalla mancanza allo stato di un consolidato indirizzo giurisprudenziale e con la comprensione dovuta in sede di prima applicazione per l’assimilazione della nuova disciplina processuale da parte del Foro”.
A supporto di tanto, la Corte d’Appello di Salerno soggiunge che “già sotto la precedente formulazione dell’art. 434 c.p.c. si andavano affermando interpretazioni tali da escludere l’ammissibilità dell’appello laddove l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto fondanti l’impugnazione non si risolvesse in una critica adeguata e specifica della decisione impugnata, per tale intesa quella “che consenta al giudice del gravame di percepire con certezza e chiarezza il contenuto delle censure in riferimento ad una o più statuizioni adottate dal primo giudice (cfr. Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 25588 del 17/12/2010)”.
Ancora, a sostegno della prefata impostazione, la Giustizia d’Appello salernitana osserva:
1) che la finalità della novella, introdotta con D.L. recante “misure urgenti per la crescita del Paese”, è quella di migliorare, ispirandosi in particolare al modello tedesco, l‘efficienza delle impugnazioni a fronte della violazione pressoché sistematica dei tempi di ragionevole durata del processo, con conseguenti indennizzi disciplinati dalla legge n. 89 del 2001, con incidenza diretta sulla finanza pubblica e con configurazione, come osservato da importanti organizzazioni nazionali e internazionali, di un formidabile disincentivo allo sviluppo degli investimenti nel nostro Paese”;
2) “che il chiaro il riferimento al § 520 della ZPO tedesca identifica tale norma come un importante parametro comparativo, oltre che ineludibile elemento di valutazione in una interpretazione necessariamente tendente all’armonizzazione dei sistemi legislativi comunitari”;
3) “che la suddetta norma obbliga l’appellante ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché è stato osservato che il lavoro assegnato al giudice dell’appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l’emendamento, con conseguente innesto – che appare quasi automatico, giusta l’impostazione dell’atto di appello – delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado”;
4) “che la stessa enumerazione progressiva degli elementi contenutistici della motivazione dell’appello sembra suggerire un ordine preciso degli stessi (in forte analogia ancora una volta con la struttura del § 520 ZPO, nonché con l’ordinata enumerazione dei punti contenutistici della sentenza ex art. 132 c.p.c.), senza nemmeno potersi escludere una lettura “in negativo” della norma che porti a ritenere che il contenuto motivazionale indicato debba essere il solo consentito oltre che il solo richiesto, con preclusione quindi di considerazioni che non siano chiaramente e strettamente rapportate a parti della decisione impugnata”;
5) “che appaiono evidenti la facilitazione e lo sveltimento del lavoro del giudice che ne possono derivare, potendo il decidente individuare con immediatezza e senza studi defatiganti sia le richieste tendenti ad un effetto demolitorio di precise parti della motivazione della decisione impugnata, sia le richieste, sorrette da specifica ed adeguata motivazione critica, tendenti con stretta corrispondenza anche espositiva ad un effetto sostitutivo e, come si è appunto detto, altrettanto “chirurgicamente” preciso di tali parti con le parti indicate dall’appellante, il che si armonizza anche con le funzionalità di editing redazionale consentite sul piano informatico dal processo civile telematico (non a caso altra innovazione che allo stato riceve forte impulso sempre nell’ottica di un recupero dei tempi di giustizia)”;
6) “che la finalità di agevolazione e sveltimento dell’attività decisoria del giudice di appello vieppiù si coglie ponendo mente alla contestualità della novella dell’art. 434 c.p.c con l’introduzione dell’art. 436-bis c.p.c. e delle norme da esso richiamate (artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.), relative al c.d. “filtro” di ammissibilità dell’appello (a sua volta mutuato dal § 522 della ZPO) a seconda della sussistenza o meno di una ragionevole probabilità di accoglimento del gravame, giacché è evidente che in tanto tale ultima valutazione potrà essere agevolmente e sollecitamente condotta in quanto chiara, pertinente e precisa appaia la traccia decisoria proposta dall’appellante; che tale senso del “trapianto” del § 520 della ZPO nel c.p.c. lo si trova confermato anche nella motivazione dell’emendamento approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il 23.7.2012, laddove, in sostanza recependosi le indicazioni del CSM, si afferma che la novella, traendo “spunto, ovviamente nella cornice ordinamentale italiana, dal § 520, comma 3, della ZPO tedesca” fa sì che “il giudice di appello vedrà agevolato il proprio compito di esame, e per altro verso si vedrà fugato il rischio di utilizzo arbitrario del filtro, impedito dalla traccia specifica proposta dall’appellante e su cui necessariamente dovrà tararsi la prognosi di ragionevole probabilità di accoglimento”; che depone infine fortemente nel senso dell’interpretazione in questione anche il principio, affermato in motivazione da Cass. n. 13825/2008, secondo il quale la regola della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost. costituisce un parametro per valutare la compatibilità con il dettato costituzionale delle singole norme processuali o, quanto meno, per patrocinarne una interpretazione costituzionalmente orientata, essendo di tutta evidenza che l’economia di tempi processuali perseguita dalla novella (in questo affatto insignificante bensì di notevole e strategica rilevanza per invertire la tendenza all’accumulo di arretrato a carico delle Corti di Appello) può essere ottenuta solo esigendo il rispetto da parte dell’appellante, in un’ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, dei predetti oneri formali, e non consentendo più che il giudice, se non in limiti ragionevoli (da valutare più elasticamente in sede di prima applicazione della novella), sia costretto a disperdere tempo prezioso ed energie, a discapito di altre risposte di giustizia attese, nella ricerca di elementi che la parte ben può e deve fornire in maniera ordinata e puntuale”.
L’Avvocatura italiana ha manifestato, fin da subito, serie preoccupazioni verso il nuovo meccanismo dell’impugnazione ed, in particolare, l’O.U.A. ha definito l’intervento legislativo sul filtro in appello “un rimedio peggiore del male”.