La prima delle questioni su cui la dottrina ha dibattuto è se i casi di mobbing siano riconducibili alla categoria generale dell’abuso del diritto, ossia all’idea che il datore di lavoro abusi della propria situazione potestativa.
A tal proposito, però, si è osservato che paradossalmente l’abuso del diritto non ha trovato un’adeguata collocazione nell’ambito del diritto del lavoro. Il che, purttuttavia, è giustificato dal fatto che l’abuso del diritto si muove in un contesto disciplinare privo di disposizioni espresse; dunque, il paradosso risulta apparente; difatti, l’abuso del diritto non può trovare spazio in un contesto, come quello del diritto del lavoro, per il quale esistono già numerose norme positive che incidono sui poteri datoriali.
All’opposto, con riferimento ad altra clausola generale, la buona fede, si è osservato che il datore di lavoro, gestendo il rapporto di lavoro, non è tenuto soltanto a rispettare gli obblighi che la legge e la contrattazione collettiva gli impongono, ma è tenuto a tutelare, nei limiti del proprio interesse, la ragione dell’altra parte, secondo quel principio di solidarietà che fa capo alle regole generali della buona fede, ex artt. 1175 e 1375 c.c..
Non è certamente un caso, peraltro, che la norma cardine in materia di mobbing, l’art. 2087 c.c., fondamento della responsabilità datoriale, evochi in via di principio la libertà e la dignità del lavoratore come oggetto di obblighi di protezione da parte del datore di lavoro.
Ecco che il datore di lavoro, nell’esercizio dei propri poteri, è condizionato, nel senso che, non è tenuto soltanto alla retribuzione, ma è tenuto anche a garantire, in senso ampio e lato, la posizione del lavoratore; è obbligato a tutelarlo dal punto di vista dei valori patrimoniali e di quelli non patrimoniali, vale a dire della persona, al di là di espresse, positive, esplicite norme che colorino il suo impegno contrattuale.
In altre parole, la buona fede può assurgere a fonte integrativa del contratto e il sindacato sulla buona fede e correttezza è un fortissimo strumento a disposizione del giudice per verificare e sindacare, in concreto, la correttezza dell’esercizio dei poteri datoriali.
Giunti a questo punto, è lecito domandarsi come si sindaca in concreto il potere datoriale. Ebbene, secondo la teoria pubblicistica, (seguita da una notissima sentenza) l’esercizio del potere si sindaca secondo la logica dell’eccesso di potere. Questa soluzione ha notevoli implicazioni applicative, infatti, l’atto datoriale viziato da eccesso di potere è un atto annullabile, per cui sarà caducato dal giudice secondo la tesi definita dell’annullamento.
Questa soluzione è, del resto, perfettamente coerente con la tecnica della procedimentalizzazione dei poteri: invero, se il potere è procedimentalizzato, qualora si proceda ad un licenziamento collettivo, ad esempio, senza ascoltare i sindacati maggiormente rappresentativi, il licenziamento sarà automaticamente annullato perché è stato violato il procedimento, cioè la regola formale di condizionamento indiretto, dall’esterno dei poteri datoriali del privato.
Esiste un’altra alternativa, quella della teoria privatistica, per cui le scelte discrezionali del datore di lavoro devono avvenire secundum bonam fidem. Ecco che la buona fede in executivis, cioè nell’esecuzione del contratto, consente il sindacato giurisdizionale sulle scelte del datore di lavoro.
La conseguenza non è irrilevante: infatti, se c’è violazione della buona fede in executivis, qual è la sanzione a carico dell’altra parte? L’annullamento, la caducazione, l’invalidità? La soluzione è da ricercare nell’inadempimento, perché la buona fede è un criterio di apprezzamento del comportamento esecutivo del datore di lavoro inadempiente rispetto agli obblighi integrativi, strumentali, accessori che gli impongono di tutelare in chiave di solidarietà la posizione dell’altra parte.
È interessante notare che c’è un altro problema, tutt’oggi molto sentito ed aperto, cioè quello della parità di trattamento.
Esiste una regola di parità di trattamento nel lavoro privato? Il datore di lavoro può pagare un dipendente più di un altro? Certamente ciò non è possibile nel pubblico impiego, perché sarebbe contrario ai principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità.
La stessa regola vale anche per il lavoro privato? La giurisprudenza ha tradizionalmente elaborato una soluzione negativa, sostenendo che il datore di lavoro deve rispettare i minimi contrattuali, previsti dai contratti collettivi, ma, se vuole favorire un lavoratore rispetto ad un altro, lo può fare perché, quand’anche questo possa risultare moralmente inaccettabile, è giuridicamente corretto, salvo che non sia ingiurioso.
L’ultima clausola generale richiamata dalla dottrina e dalla giurisprudenza è quella della causalità. Si argomenta nel senso che i poteri datoriali non siano astratti, bensì causali e che, pertanto, meritino di essere giustificati sotto il profilo della causa, cioè della funzione, dello scopo che mirano a realizzare.
Trasformare da astratte a causali le scelte del datore di lavoro significa consentire al giudice il sindacato. Trattasi di un controllo di complessiva meritevolezza delle scelte che fa il paio con la meritevolezza quale criterio generale di giuridicizzazione delle scelte di autonomia privata.