Sotto il profilo sistematico, il mobbing si colloca nell’ambito della tematica dei rapporti fra datore di lavoro e lavoratore, ovvero tra parte forte e parte debole del contratto di lavoro. La responsabilità in tema di mobbing è riconducibile al datore di lavoro anche quando, in realtà, il comportamento vessatorio sia posto in essere da alcuni dipendenti in danno di altri.
Ciò, per due ordini di ragioni:
1)se si assume che il mobbing abbia natura di responsabilità extracontrattuale, le norme applicabili sono naturalmente gli artt. 2043 e 2059 c.c., ma soprattutto l’art. 2049 c.c., che sancisce la responsabilità dei datori di lavoro per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro dipendenti;
2)se si vuole, invece, inquadrare il mobbing nella responsabilità contrattuale, la norma fondamentale da richiamare è l’art. 2087 c.c., oltre all’art. 2103 c.c..
Il rapporto di lavoro è tradizionalmente sbilanciato a favore del datore di lavoro, di qui l’esigenza di limitare, verificare, condizionare e sanzionare i poteri datoriali. Ma quali sono le regole, i principi e soprattutto le norme che condizionano i poteri datoriali a tutela della parte debole del rapporto?
La migliore dottrina ha elencato almeno tre diverse tecniche idonee a fronteggiare lo squilibrio negoziale tra le parti di un contratto di lavoro:
a. la tutela antidiscriminatoria, cioè quella che mira a condizionare l’esercizio, in concreto, dei poteri e dei diritti potestativi del datore di lavoro, per evitare scelte connotate da arbitrarietà. Non a caso la prima forma di mobbing è proprio la discriminazione tra lavoratori.
Ebbene, le norme che scolpiscono tale tutela sono: l’art. 4 l. 604/66 e l’art. 3 l. 108/90, in tema di nullità dei licenziamenti discriminatori; gli artt. 15 e 16 l. 300/70 (Statuto dei lavoratori); infine, la normativa in materia di protezione del lavoro femminile, la l. 903/77 e la l. 125/91.
b. l’adeguata giustificazione: la limitazione dei poteri datoriali avviene subordinando l’esercizio di tali poteri alla sussistenza di un giustificato motivo. È il caso, per esempio, dei licenziamenti: la l. 604/66, e segnatamente gli artt. 1 e 3, per i licenziamenti individuali; la l. 223/91, in particolare l’art. 24, per i licenziamenti collettivi.
Il giustificato motivo è clausola generale che mira a consentire al giudice il sindacato sulla correttezza, l’adeguatezza e la ragionevolezza dell’esercizio del potere datoriale; emblematico, da questo punto di vista, è l’art. 2103 c.c., a proposito del trasferimento del lavoratore, secondo cui il trasferimento può essere disposto soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
c. Procedimentalizzazione dei poteri: è il caso della l. 223/91, che vuole condizionare sì il potere datoriale, circa i licenziamenti collettivi, ma non imponendo particolari limiti o condizionamenti o giustificazioni a quel potere, bensì solo procedimentalizzandolo, imponendo, per esempio, di sentire le organizzazioni sindacali o le rappresentanze sindacali aziendali.
Così come accade anche per altri poteri, quali quelli pubblicistici, che non possono essere esplicati se non attraverso un giusto procedimento, all’interno del quale i vari interessi coinvolti devono essere acquisiti e, adeguatamente e motivatamente, ponderati. Di qui il parallelismo con le tecniche di procedimentalizzazione dei poteri non pubblici ma privati, cioè del datore di lavoro.