Il TAR di Reggio Calabria, con la sentenza del 25 febbraio 2009 n. 110, non accoglie il risarcimento del danno da mobbing. I Giudici concludono, alla luce della documentazione prodotta, delle argomentazioni spese dalle parti, degli esiti dell’indagini penale conclusasi con una richiesta di archiviazione (sulla quale v’è comunque opposizione della persona offesa) della Procura di Palmi e dell’analisi della progressione dei fatti, per l’inesistenza di un disegno persecutorio teso all’emarginazione ed all’isolamento fisico e psicologico del ricorrente, diversamente ritenuto necessario dalla giurisprudenza per la sussistenza di una fattispecie di mobbing. V’è stato piuttosto, secondo il TAR, un provvedimento di riorganizzazione dell’ufficio, vissuto dal ricorrente come ingiustamente pregiudizievole dal punto di vista personale ed economico, che ha generato difficoltà di adattamento e forti attriti, forse acuiti dalla spiccata personalità dei protagonisti, rifluendo sull’attività lavorativa sì da incancrenire i rapporti minando la serenità e l’equilibrio dell’ambiente lavorativo.
In altri termini, viene esclusa la ricorrenza di una azione “mobizzante” dell’amministrazione poichè gli assunti del ricorrente, se pur idonei a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consentono di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro. La giurisprudenza ha chiarito che «costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa » (Cass. Civ. sez. lav., n. 4774/2006; Cons. Stato Sez. VI, 06-05-2008, n. 2015).
Più precisamente, il mobbing è integrato: 1) da un elemento oggettivo, consistente in ripetuti soprusi posti in essere dai superiori (cd. mobbing verticale) o dai colleghi (cd. mobbing orizzontale), anche se formalmente legittimi, aventi lo scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa così da determinarne il suo isolamento (fisico, morale e psicologico) all’interno del contesto lavorativo; 2) da un elemento psicologico, consistente, oltre che nel dolo generico (di nuocere al dipendente), anche nel dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, in modo da ingenerare nella vittima la convinzione che è solo colpa sua, che non vale nulla e che è meglio che se ne vada. Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa (cd. “mobbing”), sono rilevanti i seguenti elementi: 1) una strategia persecutoria, che non si sostanza in singoli atti da ricondurre nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell’ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore), che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza; Ne consegue che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante « andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro» (Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 01-10-2008, n. 4738); 2) l’evento lesivo dell’effettivo danno alla salute o alla personalità del dipendente, consistente in uno stato di disagio psicologico e nell’insorgenza di una serie di disturbi incidenti sulla sfera relazionale; 3) il nesso eziologico tra la suddetta strategia persecutoria ed il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; 4) la dimostrazione, oltre che del dolo generico, anche del sopra descritto dolo specifico.
Con la medesima decisione, il TAR trova l’occasione di osservare quanto segue:
– Il mobbing è, fattispecie illecita che, in ambito pubblicistico, tendenzialmente sfugge alla regola della pregiudizialità e ciò per l’evidente difetto di interesse in capo al destinatario dell’azione amministrativa illegittima alla tempestiva impugnazione dei singoli atti ricompresi nel disegno persecutorio. E’ solo con il compiersi di quest’ultimo che il pregiudizio si concretizza e viene percepito dalla vittima attraverso il riverbero sulle proprie condizioni di salute psico-fisica o sulla propria sfera soggettivo- relazionale. (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, 26 maggio 2008, n. 553). Il pregiudizio non discende da una manifestazione provvedimentale illegittima, ma dalla reiterazione di atti, comportamenti, omissioni che, complessivamente considerati disvelano, nella loro oggettività, l’intento lesivo del “mobber”. L’azione amministrativa e qui vista nel suo aspetto dinamico e storico in un contesto che sfugge al binomio illegittimità/illiceità poiché caratterizzato da una dimensione complessiva in cui i singoli atti non sono che tasselli di un’azione valutata sotto il profilo della vessatorietà.
– La natura dolosa dell’azione del datore di lavoro, globalmente considerata, oblitera ogni diaframma formale costituito dai singoli episodi di esercizio del potere. In sostanza, c’è uno sviamento di potere nei singoli frangenti amministrativi che non rileva di per sè ma quale componente della parentesi amministrativa (dinamicamente e teleologicamente considerata) indirizzata ad esercitare un potere ultimo che non sussiste, quello di emarginare il dipendente per provocarne l’allontanamento. Si può dunque affermare, anche per questa via, che agendo il ricorrente per la tutela del diritto fondamentale alla salute ed all’integrità della personalità, in relazione a fattispecie in cui non v’è potere della PA, nessuna pregiudiziale di annullamento può opporvisi. (T.A.R. Campania, II, 29 giugno 2007, n. 6397).
– Determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione (Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 06-05-2008, n. 2015).
Ecco la decisione in argomento:
Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Calabria
SENTENZA 25 febbraio 2009 numero 110
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso n. 143/2007, il sig.V .V., premesso di svolgere l’attività di ispettore capo della Polizia di Stato con assegnazione al Commissariato di Gioia Tauro e funzioni di responsabile dell’ UIGOS, impugnava una serie di atti e comportamenti asseritamente illegittimi, abusivi e vessatori oltre che pregiudizievoli per il proprio equilibrio psico-fisico, asseritamente posti in essere dal dott. C., nella relativa qualità di dirigente del locale Commissariato, a partire dai primi mesi del 2006.
1.1 Segnatamente, il ricorrente deduceva alcuni episodi e comportamenti aventi ad oggetto la fruizione dello straordinario, l’articolazione dei turni di servizio e la stessa funzione di direzione del UIGOS evidenziando l’immotivata ed illegittima sottrazione della stessa in favore di altro funzionario, l’improvviso cambio di turno ed il rigoroso, quanto immotivato, regime di autorizzazione preventiva per l’effettuazione dello straordinario, tra l’altro collocato in fasce orarie per le quali si perdeva il diritto alla mensa, per l’innanzi sempre assicurato.
1.2 Quanto allo straordinario il ricorrente, descrivendo la prassi in essere prima degli interventi limitativi del dott. Cannizzaro, deduceva che la gestione dello stesso era demandata ai responsabili dei singoli uffici, ivi compreso l’UIGOS, sulla base di una preliminare ripartizione effettuata dal dirigente tra le varie articolazioni organizzative, con obbligo di rendicontazione a straordinario effettuato. Siffatta autonomia gestionale veniva secondo il ricorrente totalmente elisa dal dott. Cannizzaro che imponeva, in luogo della stessa, un rigido ed accentrato sistema di autorizzazione preventiva, per persona e per ore, con conseguenze che, nella tesi del ricorrente, si ripercuotevano sulle potenzialità operative della squadra UIGOS sul territorio, in violazione del d.lvo 12/5/95 n. 25 e del dPR 16/3/99, n. 25.
La nuova gestione dello straordinario, causalmente collegata dal ricorrente non già ad esigenze di razionalizzazione organizzativa ma ad un malcelato intento vessatorio – unitamente ai comportamenti evidenziati, tra i quali veniva tra l’altro riferita una vicenda coinvolgente un locale pregiudicato – integravano, secondo il medesimo, un quadro giuridico-fattuale particolarmente caratterizzato da una sistematica azione di demansionamento sussumibile nella fattispecie del “mobbing” e produttiva di conseguenze sul piano della salute e dell’equilibrio psichico individuale.
2. Si costituivano in giudizio il Ministero dell’Interno, la Questura di Reggio Calabria ed il commissariato di Gioia Tauro contestando analiticamente e globalmente le allegazioni del ricorrente e fornendo una ricostruzione dell’operato del dirigente come in linea con i corretti canoni comportamentali oltre che con il vigente quadro normativo, rivendicando in particolare il potere dirigenziale di assegnazione delle risorse e di controllo del relativo utilizzo e fornendo spiegazione e ragione dei singoli episodi asseritamente a base della presunta vicenda di mobbing, stigmatizzata dal ricorrente.
3. Con successivo ricorso n. 335/2007 il ricorrente si duoleva del protrarsi e dell’acuirsi del comportamento vessatorio del dott. C., collegandolo agli effetti del proposto ricorso, deduceva di averne dato notizia alla competente Procura della Repubblica, e proseguiva descrivendo analiticamente i singoli episodi caratterizzanti l’evoluzione della vicenda pregiudizievole.
In particolare segnalava l’isolamento in cui di fatto era caduto e deduceva comportamenti asseritamente abusivi tra i quali il cambio della serratura della segreteria di sicurezza cui il ricorrente aveva ordinariamente accesso, l’utilizzo diretto di personale dell’UIGOS per pratiche ed operazioni che sarebbero, in situazioni di normalità, dovute essere assegnate al ricorrente quale più elevato in grado e, non da ultimo, l’ostilità dei colleghi, motivata a suo dire dal timore di ripercussioni personali; il tutto in un clima ormai segnato da continua tensione e sospetto, asseritamente finalizzato a provocare il trasferimento del ricorrente.
4. Anche in questo secondo ricorso si costituivano in giudizio il Ministero dell’Interno, la Questura di Reggio Calabria ed il commissariato di Gioia Tauro ribadendo le originarie tesi difensive ed evidenziando come, a seguito della notifica del primo ricorso finalizzato all’accertamento del mobbing, il rapporto di fiducia fra il dirigente e l’ispettore ricorrente si fosse irrimediabilmente incrinato giustificando delle misure di cautela.
5. Interveniva in entrambi i giudizi anche il contro interessato, dott. C., contestando le affermazioni in fatto ed in diritto del ricorrente ed individuando nella nuova organizzazione dello straordinario e nei turni di lavoro resisi necessari per dare maggiore efficienza operativa all’ufficio a parità di risorse impegnate, la scaturigine dell’acredine che aveva poi minato irrimediabilmente i rapporti lavorativi.
6. I due ricorsi venivano riuniti, attesa l’evidente connessione soggettiva ed oggettiva.
7. Il giudizio si caratterizzava per una serie di istanze di accesso agli atti avanzate in via incidentale, delle quali, l’ultima, depositata in prossimità della data fissata per l’udienza di discussione, è oggi sub iudice.
8. In relazione a quanto indicato al punto 7. il Collegio è chiamato preliminarmente a valutare l’impugnativa incidentale di accesso agli atti avanzata ex art. 25, comma 5, della l. n. 241/90, e notificata in data 2/1/2008, in relazione ad una domanda di accesso presentata all’amministrazione nel novembre 2007 e solo parzialmente evasa con nota del 13/12/2007. Trattasi della medesima impugnativa già dichiarata inammissibile con ord. 98/08 del 18/08/2008 poiché non notificata all’amministrazione resistente ed all’interventore ad opponendum. Il ricorrente la reitera, questa volta notificandola.
9. La stessa deve essere dichiarata inammissibile perché tardiva.
9.1 L’istanza incidentale di accesso in pendenza di un ricorso può ritenersi tempestiva soltanto se notificata all’amministrazione ed ai controinteressati nel termine perentorio di trenta giorni dalla conoscenza del provvedimento che nega, limita o differisce l’accesso, ovvero nel termine perentorio di trenta giorni dal maturare del silenzio-rifiuto sull’istanza di accesso in precedenza presentata all’amministrazione. (cfr. T.A.R. , 12/9/2002, n. 3940, sez. I Puglia Bari).
9.2 Si potrebbe obiettare che, in assenza di una esplicita previsione di legge, il termine perentorio di trenta giorni non valga per l’istanza incidentale di accesso, che dunque risulterebbe proponibile in ogni momento, purché sia pendente un ricorso (e, quindi, in un arco temporale che va dal deposito di quel ricorso fino a che la causa, terminata l’udienza di discussione, non venga introitata per la decisione). Tuttavia quest’ultima soluzione non può essere accolta per due ragioni. La prima si basa sul dato letterale: infatti, già l’art. 1, comma 1, della l. n. 205 del 2000 nell’introdurre la disciplina delle modalità di proposizione, si riferiva testualmente alla «impugnativa di cui all’articolo 25, comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241» lasciando così intendere che sarebbero dovute rimare inalterate le caratteristiche tipiche di quell’impugnativa; successivamente la legge 11 febbraio 2005 n. 15, art. 17 comma 1 lett. b) modificando sul punto l’art. 25 comma 5 della l. 241/90 ha testualmente previsto che il «ricorso» contro le determinazioni amministrative concernenti l’accesso di cui al medesimo comma, può essere proposto con istanza (….), così rendendo ulteriormente chiaro che trattasi sempre del medesimo ricorso e delle sue predeterminate scansioni temporali. La seconda è invece di ordine logico-sistematico: ammettendo che l’istanza incidentale di accesso possa essere proposta in ogni momento (rectius, nell’intero arco temporale in cui possa dirsi pendente il ricorso in cui l’istanza si innesta), essa diverrebbe un facile strumento per eludere il termine previsto a pena di decadenza in tutte le ipotesi in cui l’interessato non abbia proposto tempestivamente la autonoma actio ad exhibendum.
9.3 In ogni caso, anche a voler prescindere dai profili di inammissibilità, la stessa, avuto riguardo al suo oggetto ed al tema trattato, risulta comunque non utile ai fini del decidere.
10.Venendo alla decisione dei ricorsi in esame, e premessa, in punto di giurisdizione, la generale ascrivibilità della materia in valutazione nell’ambito della giurisdizione esclusiva sui cd rapporti di impiego rimasti nell’area pubblicistica, non sembra possano profilarsi dubbi circa la riconducibilità della concreta fattispecie dedotta nella giurisdizione amministrativa neanche alla luce del noto orientamento giurisprudenziale, valorizzato dalla difesa erariale, che ne eccettua la sussistenza nell’ipotesi di azione risarcitoria aquiliana.
Il ricorrente individua e stigmatizza una serie di comportamenti tenuti da organi dell’amministrazione nell’ambito del rapporto di servizio, ritenuti idonei per la loro illiceità o “abusività” a generare un danno alla salute psico-fisica del medesimo, così facendo valere una responsabilità di natura lato sensu contrattuale per la quale pacificamente sussiste la giurisdizione amministrativa.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale infatti, nell’ipotesi dell’accertamento di fatti mobbizzanti che si assume aver cagionato al prestatore di lavoro rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., ha natura contrattuale (in specie, laddove la domanda risarcitoria risulti espressamente fondata sulla lamentata inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti il rapporto di impiego), potendo ipotizzarsi una configurazione aquiliana dell’actio risarcitoria solo laddove il lavoratore abbia chiesto in modo generico il risarcimento del danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale (sul punto, cfr. – ex plurimis – Cass. Sez. Un. 4 novembre 1996 n. 9522, 28 luglio 1998 n. 7394, 14 dicembre 1999 n. 900, 12 marzo 2001 n. 99, 11 luglio 2001 n. 9385, 29 gennaio 2002 n. 1147, 25 luglio 2002 n. 10956, 5 agosto 2002 n. 11756, 23 gennaio 2004 n. 1248, Cons. Stato Sez. VI, 01 ottobre 2008, n. 4738)
Trattasi del resto, non di comportamenti “meri”, ossia sganciati dalla sussistenza o dall’esercizio di un potere pubblicistico, ma di manifestazioni di volontà, a volte implicite, poggianti sulla sussistenza di una relazione organizzativa di tipo gerarchico ed aventi ad oggetto questioni (non meramente economiche) attinenti al rapporto di servizio ed alla sua dinamica.
11. Superate le questioni relative alla giurisdizione può ora passarsi all’esame del merito.
12. L’azione di annullamento, esperita mediante domanda di annullamento di una serie di atti espressi od impliciti non meglio identificati con i quali l’amministrazione e, segnatamente, il dott. C. avrebbe provveduto alla riorganizzazione della gestione dello straordinario ed al demansionamento del ricorrente, è inammissibile.
12.1 Trattasi di impugnazione oltre che generica, palesemente intempestiva riguardando atti posti in essere prevalentemente nel febbraio/marzo 2006
In realtà il ricorrente sembra dare all’impugnazione un contenuto meramente formale, evidenziando non già i singoli profili di illegittimità degli atti impugnati, quanto piuttosto quelli di vessatorietà ed abusività degli stessi nel quadro di un’azione globalmente considerata, ricostruita attraverso una peculiare chiave di lettura dei fatti, sì da evidenziarne il finale obiettivo mobizzante a supporto della domanda risarcitoria, contestualmente spiccata.
13. Su questo versante, meritano approfondimento le eccezioni dell’amministrazione resistente in punto di inammissibilità dell’azione risarcitoria per mancata tempestiva impugnazione degli atti che ne costituiscono il presupposto logico giuridico.
13.1 La difesa erariale in particolare richiama, nella memoria del 25/10/07, il noto orientamento giurisprudenziale, poi consacrato in Cons. Stato, Ad. Plen., 22 ottobre 2007, n. 12, per il quale non è ammissibile un’azione risarcitoria “pura”, non conseguente alla tempestiva impugnazione dell’atto amministrativo della cui illegittimità si sostanzia ed alla coltivazione con successo del relativo giudizio di annullamento.
13.2 La tesi, a prescindere dal perdurante dibattito sulla validità e tenuta della cd pregiudizialità amministrativa anche a seguito del recente arresto delle Corte di Cassazione, Sez Un. Civili, sent. 23 dicembre 2008 n. 30254 , non è calabile nella particolare fattispecie sottoposta al vaglio del Collegio; ciò in ragione di concorrenti considerazioni relative alle modalità di espressione dell’azione amministrativa lesiva, alla struttura dell’illecito posto a fondamento dell’azione risarcitoria, il cd mobbing, e, a ben vedere, della natura della posizione giuridica lesa.
Il ricorrente si duole di un danno alla salute causalmente riconducibile ad una serie di comportamenti illegittimi od anche formalmente legittimi comunque accomunati da un disegno persecutorio teso a fiaccare la resistenza e lo spirito del sottoposto sino ad ottenerne le dimissioni, il trasferimento od altri comportamenti che, sebbene apparentemente volontari, hanno in realtà natura indotta oltre che effetto pregiudizievole per l’equilibrio psico-fisico dell’incolpevole “vittima”.
Il pregiudizio nell’ipotesi predetta non discende dunque (o non discende solo) da una manifestazione provvedimentale illegittima, ma dalla reiterazione di atti, comportamenti, omissioni che, complessivamente considerati disvelano, nella loro oggettività, l’intento lesivo del “mobber”. L’azione amministrativa e quivi vista e traguardata nel suo aspetto dinamico e storico in un contesto che sfugge al binomio illegittimità/illiceità poiché caratterizzato da una dimensione complessiva in cui i singoli atti non sono che tasselli di un’azione valutata sotto il profilo della vessatorietà.
In tale accezione la cd pregiudiziale di annullamento perde il suo potenziale logico finendo per assumere un ruolo tale da neutralizzare in radice la stessa possibilità di tutela nei confronti del mobbing nell’ambito dell’impiego pubblico non privatizzato, giacchè l’impugnazione tempestiva del singolo ed isolato provvedimento e la coltivazione con successo del relativo giudizio di annullamento non sarebbero condizione sufficiente per l’emersione di un danno da mobbing così come sopra definito, mentre l’azione risarcitoria spiccata all’epilogo della serie attizia o comportamentale complessivamente illecita sarebbe sempre e comunque inammissibile per difetto del previo annullamento di tutti i singoli atti.
Il mobbing è allora, quanto meno dal punto di vista ontologico, fattispecie illecita che, in ambito pubblicistico, tendenzialmente sfugge alla regola della pregiudizialità e ciò per l’evidente difetto di interesse in capo destinatario dell’azione amministrativa illegittima alla tempestiva impugnazione dei singoli atti ricompresi nel disegno persecutorio. E’ solo con il compiersi di quest’ultimo che il pregiudizio si concretizza e viene percepito dalla vittima attraverso il riverbero sulle proprie condizioni di salute psico-fisica o sulla propria sfera soggettivo- relazionale. (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, 26 maggio 2008, n. 553)
Nondimeno, il riferimento normativo del mobbing, individuato nell’art. 2087 Cc ed enucleabile nel dovere del datore di lavoro pubblico o privato di tutelare l’integrità psicofisica o la personalità morale del lavoratore sul luogo di lavoro individua un bene fondamentale della vita (la salute) che non è (quanto meno nelle fattispecie di mobbing) correlato ad una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo poiché non v’ è potere amministrativo-datoriale che lo possa lecitamente prendere di mira in un ottica ablativa o limitativa.
Piuttosto la norma impone al datore di lavoro un obbligo di attivarsi positivamente per neutralizzare l’eventuale potenziale lesivo, in relazione al bene salute, di fattori ed elementi ricorrenti nello svolgimento della prestazione lavorativa. Se dunque è lo stesso datore di lavoro o il dirigente dell’ufficio che lo rappresenta nella gestione del rapporto di impiego ad adottare atti e comportamenti che, legittimi o illegittimi che siano, si pongono, quale meta finale, il demansionamento, il trasferimento o le dimissioni del dipendente, ossia risultati illeciti perché coartati o abusivamente indotti (mobbing verticale) non v’è, nella fattispecie, l’omissione di un’azione positiva finalizzata a tutelare la salute del dipendente ma v’è, più semplicemente e brutalmente, un’azione positiva tesa ad incidere negativamente sulla sfera giuridica del dipendente sino a minarne l’equilibrio e la salute, in assenza, ovviamente, di un potere amministrativo che a ciò autorizzi. Gli strumenti del potere datoriale, anche se attivati legittimamente, sono in questo caso utilizzati, per la loro connotazione abusiva, come un’arma impropria contro il dipendente, in un’azione corroborata dal dolo specifico di neutralizzare, svilire od allontanare il lavoratore dal luogo di lavoro.
La natura dolosa dell’azione del datore di lavoro, globalmente considerata, oblitera ogni diaframma formale costituito dai singoli episodi di esercizio del potere. In sostanza, c’è uno sviamento di potere nei singoli frangenti amministrativi che non rileva di per sè ma quale componente della parentesi amministrativa (dinamicamente e teleologicamente considerata) indirizzata ad esercitare un potere ultimo che non sussiste, quello di emarginare il dipendente per provocarne l’allontanamento.
Si può dunque affermare, anche per questa via, che agendo il ricorrente per la tutela del diritto fondamentale alla salute ed all’integrità della personalità, in relazione a fattispecie in cui non v’è potere della PA, nessuna pregiudiziale di annullamento può opporvisi. (T.A.R. Campania, II, 29 giugno 2007, n. 6397)
D’altra parte, non mancano nel panorama giurisprudenziale amministrativo pronunce che, nella specifica materia dei danni da mobbing, riprendono la tesi propugnata, in termini più generali, negli ultimi anni dalla Corte di Cassazione (si vedano, per tutte, le ordinanze nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006 e da ultimo sent. 23 dicembre 2008 n. 30254), e negano la necessità di preventivo annullamento dell’atto lesivo, sulla scorta della considerazione per cui tale orientamento sarebbe di particolare rilievo proprio in situazioni, come quelle relative al mobbing, «normalmente connesse a vizi che interessano non un singolo provvedimento, ma una serie di atti, la cui illegittimità, complessivamente considerata, riveli intenti persecutori e sia fonte di danno per la salute del dipendente» ( Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2007, n. 3315;). In particolare, nelle cause di mobbing nell’ambito del pubblico impiego militare la giurisprudenza amministrativa ha chiarito ulteriormente che, «se il “mobbing” si identifica in tutto un insieme di atti e comportamenti in rapporto di necessaria occasionalità con l’attività lavorativa svolta dalla vittima. è ovviamente presumibile che l’eventuale persecuzione nei confronti della vittima del mobbing si concretizzi anche in atti amministrativi impugnabili, ma la necessaria impugnazione di questi atti avrebbe carattere meramente formale, facendo essi parte di un “sistema” volto ad integrare una condotta vessatoria nei confronti della vittima» (Cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, 26 maggio 2008, n.553).
14. La domanda risarcitoria può dunque essere decisa nel merito.
14.1 La giurisprudenza ha chiarito che «costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa » (Cass. Civ. sez. lav., n. 4774/2006; Cons. Stato Sez. VI, 06-05-2008, n. 2015).
Più precisamente il mobbing è integrato: 1) da un elemento oggettivo, consistente in ripetuti soprusi posti in essere dai superiori (cd. mobbing verticale) o dai colleghi (cd. mobbing orizzontale), anche se formalmente legittimi, aventi lo scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa così da determinarne il suo isolamento (fisico, morale e psicologico) all’interno del contesto lavorativo; 2) da un elemento psicologico, consistente, oltre che nel dolo generico (di nuocere al dipendente), anche nel dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, in modo da ingenerare nella vittima la convinzione che è solo colpa sua, che non vale nulla e che è meglio che se ne vada. Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa (cd. “mobbing”), sono rilevanti i seguenti elementi: 1) una strategia persecutoria, che non si sostanza in singoli atti da ricondurre nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell’ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore), che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza; Ne consegue che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante « andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro» (Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 01-10-2008, n. 4738); 2) l’evento lesivo dell’effettivo danno alla salute o alla personalità del dipendente, consistente in uno stato di disagio psicologico e nell’insorgenza di una serie di disturbi incidenti sulla sfera relazionale; 3) il nesso eziologico tra la suddetta strategia persecutoria ed il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; 4) la dimostrazione, oltre che del dolo generico, anche del sopra descritto dolo specifico.
14.2. Ciò chiarito, appare dirimente accertare se gli atti, i comportamenti ed i fatti, dedotti dal ricorrente siano, singolarmente e complessivamente considerati, idonei ad integrare il quadro tipico del mobbing o se gli stessi siano invece sostanzialmente legittimi o in ogni caso privi di un reale collante persecutorio, soltanto percepito o vissuto dal ricorrente come tale.
Le censure o, meglio, la trama dei singoli episodi e comportamenti posta a base dell’azione risarcitoria contempla apparenti manifestazioni di sfiducia, presunte disparità di trattamento, atteggiamenti di prevaricazione o di ostilità, il tutto consumato in un clima di tensione e sospetto che affonda le sue radici nella vicenda dello straordinario.
Sul punto il ricorrente deduce che il dott. Cannizzaro, dirigente del locale commissariato, nel febbraio 2006 provvedeva alla riorganizzazione del lavoro straordinario e dei turni di servizi, stravolgendo una prassi consolidata da anni. Segnatamente, in epoca antecedente al provvedimento organizzativo censurato, il lavoro dell’ispettore capo Ventrice era articolato in via ordinaria sulle frazioni antimeridiane 8/14 ed in via straordinaria con orario 15/18 e, ciò in ragione soprattutto delle necessità di servizio dell’UIGOS prevalentemente concentrate nella mattinata. Inoltre il lavoro straordinario si riteneva implicitamente autorizzato sicchè non era necessario richiedere di volta in volta l’autorizzazione del dirigente, similmente (sempre nella ricostruzione del ricorrente) a quanto avveniva negli altri uffici in cui il Commissariato era articolato.
Le nuove modalità organizzative dettate dal dirigente prevedevano invece un turno di lavoro ordinario esteso alla frazione pomeridiana 14/20 ed una fascia oraria per effettuare lo straordinario 16/19 e, quindi, con stacco di due ore in caso di turno lavorativo ordinario antimeridiano.
Secondo il ricorrente, siffatta riorganizzazione, oltre che introdurre una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri uffici, era per il medesimo pregiudizievole sotto il profilo economico e personale nella misura in cui impediva il godimento gratuito dei servizi di mensa (in considerazione dello stacco di due ore tra il turno ordinario e lo straordinario) ed introduceva un defatigante regime di costante e preventiva autorizzazione, giudicata “umiliante”. Nella prospettazione del ricorrente relativa al nuovo orario di lavoro è dato altresì rilievo ad un episodio precedente che avrebbe incrinato il rapporto di fiducia e serena collaborazione con il dirigente ed avrebbe in particolare indotto quest’ultimo a “punire” indirettamente il ricorrente, proprio attraverso un orario maggiormente penalizzante.
14.3. Sul punto la difesa erariale replica sottolineando le impellenti esigenze organizzative che avevano giustificato l’intervento di rimodulazione: tutto il personale di Polizia addetto all’UIGOS articolava il proprio orario di lavoro ordinario nella frazione antimeridiana con l’inevitabile conseguenza che il pomeriggio l’ufficio era destinato a restare chiuso o al più aperto sino alle 18:00 in forza del ricorso sistematico allo “straordinario di emergenza”. Siffatta organizzazione risultava, secondo la difesa erariale, non solo scarsamente funzionale in ragione della citata chiusura pomeridiana, ma anche inefficiente per l’evidenziato impiego di risorse straordinarie in relazione ad esigenze che straordinarie non erano.
14.4. Ulteriori elementi, anche in riferimento all’episodio che ha preceduto i provvedimenti riorganizzativi, sono forniti dal dirigente dott. Cannizzaro, intervenuto ad opponendum nel giudizio, il quale evidenzia come l’invito informale ad una articolazione lavorativa maggiormente razionale ed efficace fosse già stato indirizzato all’UIGOS ed al suo responsabile, ispettore Capo Ventrice, prima del disguido descritto, senza tuttavia che ne fosse conseguita una concreta attuazione. Il disguido, consistente in una mancata risposta ad una richiesta operativa della Prefettura di Reggio Calabria avvenuta nella frazione pomeridiana, era stato piuttosto, secondo la ricostruzione fornita dall’interveniente, il fattore che aveva convinto la dirigenza della non procrastinabilità di una formale ed espressa riorganizzazione.
14.5. Altri episodi verificatisi in rapida successione sono dedotti dal ricorrente a sostegno della fase che potremmo definire “iniziale” della presunta vicenda di “mobbing”: l’imposizione, senza congruo preavviso di cambi di turno da 8/14 a 14/20, le difficoltà frapposte per l’autorizzazione a recarsi a Reggio Calabria ove il medesimo doveva regolarizzare una propria domanda di partecipazione ad un concorso interno, la frase ironica e denigratoria annotata dal dirigente su una lettera di compiacimento fatta pervenire al Commissariato dal dirigente di una squadra di calcio, in relazione al servizio d’ordine espletato dal Ventrice.
15. Il Collegio ritiene che la questione dello straordinario debba essere dipanata sotto il profilo fattuale e giuridico poiché da essa dipende l’acredine che ha caratterizzato il prosieguo del rapporto.
15.1 L’accordo nazionale quadro, in attuazione dell’art. 3 del d.lgs 195/95 e dell’art. 23 del dPR 254/99 ha dettato all’art. 13 la disciplina dello straordinario fissando una ripartizione non solo definitoria tra straordinario programmato e straordinario emergenziale. Il primo, limitato al 20% del complessivo monte ore assegnato ed oggetto di una procedura di informazione sindacale preventiva, è lo straordinario dedicato ad esigenze prevedibili e perciò programmabili dal dirigente sulla base di obiettivi da perseguire nell’ambito dell’ordinaria attività istituzionale. Siffatta componente, concretamente gestita a mezzo di volontaria adesione da parte del personale interessato a mezzo di elenchi all’uopo predisposti, oltre ad avere delle limitazioni quantitative complessive, presenta delle limitazioni individuali: “ciascun dipendente può essere impiegato in turni di lavoro straordinario programmato per non più di due volte a settimana e per non più di tre ore per ciascun turno” (Cfr. art. 13 lett. d) ANQ; Circ. Min. Interno n. 2081 del 5 giugno 2000).
15.2 Lo straordinario “emergenziale”, disciplinato in via generale dall’art. 63 della legge 121/81, è invece il monte ore utilizzabile esclusivamente per fronteggiare esigenze di servizio di carattere eccezionale o comunque non prevedibile. Lo stesso deve essere svolto da agenti ed ufficiali di pubblica sicurezza su preventiva autorizzazione del Capo Ufficio, il quale deve farsi altresì carico di accertare che esso sia stato effettivamente reso (sul punto Circ. Min. Interno n.3 del 10 febbraio 1994).
15.3 La giurisprudenza ha chiarito che, alla preventiva autorizzazione a svolgere lavoro straordinario deve essere annessa una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, deve essere improntata l’azione della pubblica Amministrazione:
• quella di rappresentare una verifica in concreto della sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative eccedenti l’orario normale di lavoro;
• quella di evitare il superamento dei limiti previsionali di bilancio relativi alle prestazioni in questione;
• quella di assicurare il rispetto delle condizioni psico – fisiche del dipendente, in modo da evitare a quest’ultimo nocumento alla salute e alla dignità personale;
• quella di consentire alla stessa Amministrazione l’opportuna ed adeguata valutazione delle concrete esigenze dei propri uffici onde evitare che il sistematico ed indiscriminato ricorso alle prestazioni straordinario costituisca elemento di programmazione dell’ordinario lavoro di ufficio.
Lo specifico punto da ultimo citato evidenzia chiaramente la linea di discrimine tra la disciplina del lavoro straordinario programmato e quella del lavoro straordinario “emergenziale”: Il primo, costituendo un’ estensione programmata dell’ordinario orario di lavoro, deve essere oggetto di informazione sindacale, ma non necessita di puntuale e preventiva autorizzazione; il secondo, specularmente, essendo una risorsa disponibile per fronteggiare esigenze impreviste non fronteggiabili con il normale orario d’obbligo né con la sua estensione programmata, necessita di autorizzazione proprio per evitare che trasmodi in routine, con conseguentemente svilimento della funzione e spreco di risorse pubbliche.
15.4. Le censure del ricorrente in ordine all’abusività delle nuove modalità organizzative imposte dal dirigente, dunque, sicuramente non colgono nel segno nella parte in cui ritengono che la subordinazione dello straordinario emergenziale alla preventiva e formale autorizzazione sia stata una prassi irrituale e mortificante la professionalità del ricorrente.
16. Nondimeno risultano infondate le censure che investono la collocazione temporale dei turni di straordinario, l’imposizione di turni di lavoro ordinario nella frazione pomeridiana della giornata e di improvvisi cambi di turno.
16.1 Dagli atti non risultano “cambi turno” che per frequenza e modalità possano valutarsi come vessatori o comunque maggiormente penalizzanti rispetto a quanto disposto per il rimanente personale. I rimanenti profili legati alla collocazione temporale dei turni di straordinario ed all’imposizione di turni di lavoro ordinario nella frazione pomeridiana della giornata attengono a soluzioni organizzative discrezionalmente individuate dal dirigente al fine di garantire un servizio maggiormente esteso nell’arco della giornata, analogamente a quanto avveniva per gli uffici della Questura e della Prefettura, la cui bontà e meritevolezza sfugge al sindacato di questo collegio ma che in ogni caso, avuto riguardo alla complessità e delicatezza dei compiti demandati ai Commissariati di Polizia, presentano oggettivamente una spiegazione alternativa rispetto al profilato intento vessatorio nei confronti del ricorrente.
16.2. Il Supremo Consesso di giustizia amministrativa ha chiarito, proprio in relazione a fattispecie simile che «determinati comportamenti non possono essere qualificati come harassment o mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione» (Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 06-05-2008, n. 2015)
17. Anche la vicenda relativa alla lettera di ringraziamento pervenuta al commissariato, avente ad oggetto il servizio d’ordine svolto in occasione di un incontro calcistico dal ricorrente insieme ad altri colleghi, si presta ad essere spiegato con ragioni istituzionali ed investigative.
17.1 Sebbene i toni della nota stesa dal dirigente a margine della citata lettera di ringraziamento lascino trafelare in modo ironico e forse un po’ brusco il disappunto del medesimo, tuttavia, trattasi di motivazioni che attengono alla sfera dell’opportunità, dell’indagine e della delicata posizione istituzionale del Commissariato che comunque di certo non affermano né insinuano l’esistenza di un possibile sospetto di collusione. Piuttosto dal tenore della nota sembra potersi ricavare la sottolineatura di una (ritenuta) ingenuità: quella di non aver capito che i compiacimenti manifestati, sicuramente sinceri anche se bonariamente sollecitati (come ammesso dallo stesso ricorrente), potessero provenire da soggetto pregiudicato per fatti di mafia.
18. Ancora, le doglianze relative all’adibizione ad altri servizi, di personale addetto all’UIGOS, non sembrano evidenziare profili di illegittimità censurabili e vengono presentate dal ricorrente unicamente come elementi di un disegno complessivo teso ad emarginarlo. Esse assumono dunque significato e valenza solo se vagliate nel fuoco del mobbing.
19. E’ in relazione a quest’ultimo che deve allora compiersi una valutazione complessiva: gli atti posti in essere dall’amministrazione appaiono infatti legittimi e dunque, è solo individuando la sussistenza di un disegno persecutorio di fondo sorretto dal dolo specifico del danneggiamento della personalità del dipendente che può assegnarsi un fondamento al ricorso.
20. Il citato disegno non è ravvisabile, neanche alla luce delle deduzioni del secondo ricorso.
La sensazione è quella che l’iniziale frattura, dovuta alla vicenda dello straordinario e dei turni di lavoro, abbia scavato un solco nei rapporti personali nell’ambito del contesto lavorativo sicchè ogni successiva azione o reazione è stata considerata e vissuta personalmente come un episodio di una storia già tracciata.
Così le vicende dedotte nel secondo ricorso e, segnatamente, la sostituzione della serratura della porta dell’archivio riservato ove il ricorrente aveva accesso, il demansionamento, l’intrattenimento di rapporti esclusivamente e meramente formali, l’isolamento anche da parte dei colleghi sono vicende che si inquadrano in una fase in cui è già pendente un ricorso in sede giurisdizionale amministrativa per l’accertamento del mobbing ed una indagine attivata, sempre su segnalazione del ricorrente, dalla Procura della Repubblica di Palmi.
Quanto sopra, unitamente alle numerosissime richieste di accesso ad atti del Commissariato finalizzate a documentare il mobbing e le relative tesi a sostegno, oltre al tentativo del ricorrente di precostituirsi prova del mobbing attraverso la captazione e registrazioni di conversazioni private, ha imposto al dirigente, anche su segnalazione dei superiori gerarchici, una procedura di cautela e di raffreddamento avente quale obiettivi: 1) quello di evitare che l’abilitazione alla custodia ed al trattamento di atti investigativi riservati, di cui era in possesso il ricorrente, potesse essere utilizzato dallo stesso in modo deviato o comunque utile alla propria causa, nonché 2) quello di evitare rapporti lavorativi “diretti” fra il ricorrente ed il dirigente, presunto mobber. Rientra probabilmente in questo disegno anche l’affidamento della responsabilità dell’UIGOS ad altro funzionario.
Il grave deterioramento dei rapporti personali e la totale frattura del rapporto di fiducia fra chi si sente mobbizzato e che si sente ingiustamente e pesantemente accusato è sicuramente la chiave di lettura degli eventi successivi alla notifica del primo ricorso ed all’indagine della Procura di Palmi. In questa fase il ricorrente ha già attivato una tutela giurisdizionale ed è sorretto nella sua azione da un legale, mentre l’amministrazione adotta le cautele per far sì che la vicenda non pregiudichi il funzionamento ed il decoro dell’istituzione, oltre che la dignità del funzionario sino ad una pronuncia giurisdizionale.
Si assiste cioè ad uno scontro più che ad una vessazione datoriale.
21. Riassumendo i termini della vicenda complessiva può affermarsi, alla luce della documentazione prodotta, delle argomentazioni spese dalle parti, degli esiti dell’indagini penale conclusasi con una richiesta di archiviazione (sulla quale v’è comunque opposizione della persona offesa) della Procura di Palmi e dell’analisi della progressione dei fatti, l’inesistenza di un disegno persecutorio teso all’emarginazione ed all’isolamento fisico e psicologico del ricorrente, diversamente ritenuto necessario dalla giurisprudenza per la sussistenza di una fattispecie di mobbing. V’è stato piuttosto un provvedimento di riorganizzazione dell’ufficio, vissuto dal ricorrente come ingiustamente pregiudizievole dal punto di vista personale ed economico, che ha generato difficoltà di adattamento e forti attriti, forse acuiti dalla spiccata personalità dei protagonisti, rifluendo sull’attività lavorativa sì da incancrenire i rapporti minando la serenità e l’equilibrio dell’ambiente lavorativo.
22. In conclusione, riprendendo l’ ipotesi ricostruttiva della fattispecie dianzi esaminata in via generale ed introduttiva, può escludersi la ricorrenza di una azione “mobizzante” dell’amministrazione poichè gli assunti del ricorrente, se pur idonei a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consentono di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
23. La domanda di risarcimento non può dunque essere accolta.
24. Sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di causa.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, definitivamente decidendo sui ricorsi in epigrafe:
1. Dichiara inammissibile il ricorso ex art. 25 comma 5 legge 241/90 e succ. mod.;
2. Dichiara inammissibile il ricorso nella parte in cui è chiesto l’annullamento di una serie di atti e comportamenti;
3. Rigetta la domanda di condanna al risarcimento del danno;
4. Spese compensate;
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Reggio Calabria nella camera di consiglio del giorno 11/02/2009