In tema di contratto di locazione commerciale, il canone di locazione nel corso del rapporto non può essere rideterminato, ma solo aggiornato secondo la variazione dell’indice istat (art. 32 della L. 392/1978, cd. legge sull’equo canone).
Ogni pattuizione finalizzata non all’aggiornamento ma all’aumento del canone è nulla per violazione dell’art. 79 della citata legge.
In proposito, la Suprema Corte di Cassazione, con un insegnamento ormai consolidato, e confermato con la Sentenza 4 aprile 2017 n. 8669, di cui di seguito si ripropone l’iter logico-argomentativo, ha da tempo ribadito che “nelle locazioni ad uso diverso da quello abitativo ogni pattuizione avente ad oggetto non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della Legge n. 392 del 1978, art. 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ai sensi dell’art. 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti”.
Tale orientamento, inaugurato dalla sentenza 27 luglio 2001 n. 10286, ha portato al definitivo superamento dell’ormai remoto precedente costituito dalla sentenza 19 novembre 1993, n. 11204, che era di segno contrario. La sentenza 10286/2001 ha fondato la propria decisione su di una serie di considerazioni, tutte condivisibili, fra le quali è il caso di richiamare soprattutto quelle relative al testo dell’art. 79 della Legge 392/1978. Detta sentenza osserva, infatti, che se il diritto alla ripetizione delle somme pagate in violazione dei limiti e divieti di legge può essere fatto valere dal conduttore anche dopo la riconsegna dell’immobile, ne deriva che “non è sostenibile che di esso possa disporre il conduttore in corso di rapporto, accettando aumenti non dovuti”, perché simile rinuncia, espressa o tacita, appare “inconciliabile” con detta facoltà di ripetizione.
L’orientamento ora richiamato è stato più volte confermato dalla giurisprudenza successiva (Cass., 11 aprile 2006, n. 8410; Cass., 7 febbraio 2008, n. 2932; Cass., 7 febbraio 2013, n. 2961); e, d’altra parte, è bene rammentare che l’art. 79 cit. è rimasto in vigore per le locazioni non abitative anche dopo la riforma di cui la L. 9 dicembre 1998 n. 431 (si veda l’art. 14, comma 4, di quest’ultima), con la sola possibilità di deroga prevista per le locazioni con un canone superiore ad euro 250.000,00 dal D.L. 12 settembre 2014 n. 133, art. 18, convertito, con modificazioni, nella L. 11 novembre 2014 n. 164, che ha aggiunto un terzo comma nel citato art. 79.
Ciò comporta che la L. 392 del 1978, art. 32, costituisce norma ostativa alla possibilità di riconoscere al locatore, nelle locazioni ad uso diverso da quello di abitazione, una variazione in aumento del canone se non nei limiti ivi ammessi, pari al 75 % delle variazioni accertate dall’Istat dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati; dovendo pertanto ritenersi affetta da nullità ogni clausola volta ad attribuire al locatore aumenti di canone in misura maggiore. Il che è coerente con la circostanza per cui nelle locazioni ad uso diverso da quello di abitazione il canone era da considerare libero anche prima delle recenti riforme che hanno esteso quel regime alle locazioni abitative.
Tale insegnamento giurisprudenziale si armonizza in modo coerente con l’altro, pure consolidato e pacifico, secondo cui la clausola che prevede la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto (cd. canone a scaletta) è legittima a condizione che l’aumento sia ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio del sinallagma contrattuale; ciò allo scopo di evitare che la suddetta clausola costituisca, appunto, un espediente per aggirare la norma imperativa di cui all aL. 392/1978, art, 32, circa le modalità e la misura di aggiornamento del canone in relazione alle variazioni del potere d’acquisto della moneta (Cass., 3 febbraio 2011, n. 2553; Cass., 28 luglio 2014, n. 17061; Cass., 11 ottobre 2016, n. 20384).
Certamente è nulla la clausola in parola se NON risulta ancorata ad “elementi predeterminati” (Cass., 4 aprile 2017, n. 8669) oppre se NON è giustificata dall’ampliamento della destinazione d’uso (Cass., 19 febbraio 2009, n. 4040).