La Cassazione, con sentenza dell’8-1-2000, n. 143, ha manifestato i limiti della operazione di riconduzione del mobbing nell’ambito della normativa vigente, in particolare sotto il profilo probatorio, potendo risultare nella generalità dei casi particolarmente difficile per il lavoratore fornire la prova dei fatti denunciati. Ciò in specie quando, come si descrive a proposito del mobbing, comportamenti vessatori, discriminatori e molesti, ben noti alla casistica giurisprudenziale del lavoro, divengono espressione di una volontà collettiva e sono attuati in modo subdolo, individualmente irrilevante, ma collettivamente grave, ai limiti dell’antigiuridico, nella forma di quel terrorismo psicologico, impossibile da provare da parte di chi ne è vittima.
La sentenza in parola soggiunge che il mobbing va provato e che la falsa accusa di mobbing può, in certe circostanze, giustificare il licenziamento, poiché questo tipo di diffamazione, se privo di elementi che la supportino, lede gravemente il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente.
E come prova delle persecuzioni subite, se non si indicano gli specifici episodi, non vale esibire certificati medici che attestano una sindrome depressiva da mobbing.
Tale sindrome, infatti, non lede la capacità di intendere e di volere, ma altera solo gli stati emotivi: il mobbing, perciò, non è da solo sufficiente ad accusare il capo, occorrono prove concrete, fatti, luoghi, testimoni che, pur tenendo conto delle inevitabili sacche di omertà degli ambienti di lavoro, dimostrino le colpe e supportino le accuse.
In mancanza, viene inevitabilmente meno l’elemento della fiducia.
È di tutta evidenza che, in alcune ipotesi, il mobbing possa avere una rilevanza penale.
È il caso in cui un comportamento mobbizzante abbia provocato lesioni personali (artt. 582 e 590 c.p.); abbia istigato al suicidio (art. 580 c.p.); si sia tradotto in un’ingiuria o in una diffamazione (art. 594 e 595 c.p.), in un sequestro di persona (art. 605 c.p.), in una violenza privata ( art. 610 c.p.), in una violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), in una minaccia (art. 612 c.p.), in un abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), in una molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.).
Ma, in disparte tutto ciò, le tutele del lavoratore sono:
a.le azioni contrattuali;
b.le tutele risarcitorie.
Laddove la vittima subisca un danno a causa delle persecuzioni potrà essere risarcita in base al combinato disposto: art. 2043 c.c. (per la responsabilità extracontrattuale, nel caso in cui autore della molestia sia un soggetto diverso dal datore di lavoro ovvero sia il datore stesso, nel qual caso, però, concorrerà con la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c.) o art. 2087 c.c. (per la responsabilità contrattuale, nel caso in cui autore della molestia sia il datore di lavoro ovvero non sia esso l’artefice effettivo della persecuzione, ma questa sia comunque a lui riconducibile per violazione indiretta degli obblighi di cui alla disposizione in esame) + art. 32 Cost..
Ovviamente l’art. 32 Cost. rileverà per i casi in cui sia lamentata una lesione del diritto alla salute, laddove una lesione all’esistenza ed alla personalità dovrebbe, invece, essere basata sul collegamento: art. 2043 (o 2087) + art. 41 Cost..
Dai comportamenti mobbizzanti possono derivare danni patrimoniali, danni all’integrità psico-fisica e danni alla personalità del lavoratore. La perdita di autostima ed il progressivo isolamento sono, infatti, idonei a condizionare non poco la vita non solo lavorativa, ma anche personale e familiare della vittima.
Pertanto, è ovvio che le tradizionali categorie del danno patrimoniale, morale e biologico risultino inadeguate a risarcire integralmente il danno da mobbing.
Ecco che emerge nel panorama giuridico una nuova categoria di danno non patrimoniale, sganciata tanto dal reato quanto dalla lesione psicofisica, e consistente nel pregiudizio arrecato dall’illecito datoriale all’interesse del lavoratore a realizzarsi come persona nell’ambiente del lavoro nonché nella vita sociale e familiare.
Il danno esistenziale si sostanzia in una sequenza di meccanismi alterati, è un diverso dare e dover fare, è un non poter più fare, è un altro modo di rapportarsi al mondo esterno.
Sul piano probatorio, il danno esistenziale si differenza sostanzialmente da quello biologico: mentre questo si prova in forza di un accertamento medico-legale, il primo può essere dimostrato mediante prova testimoniale, presuntiva e documentale.
Il danneggiato dovrà, ad esempio, provare in concreto quale attività meritevole di tutela la condotta mobbizzante gli impedisca oggi di svolgere.