In materia di separazione giudiziale dei coniugi, suscita grande interesse la Sentenza del 19 gennaio 2015, n. 347, pronunciata dal Tribunale di Torre Annunziata, riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati: il Presidente Dott. Stefano Chiappetta, il Giudice relatore Dott. Francesco Coppola ed il Giudice Dott.ssa Luisa Zicari.
Invero, con la suddetta sentenza, il Collegio territoriale affronta questioni di grande problematicità, quali l’addebitabilità della separazione, l’assegnazione della casa coniugale in assenza di figli minorenni ed, in particolare la risarcibilità del danno da infedeltà coniugale, fornendo per ciascuna questione soluzioni di singolare rilievo giuridico.
Il Collegio dichiara nel caso specifico la separazione giudiziale dei coniugi, risultando incontrovertibilmente provato il venir meno di quei presupposti di intenti comuni e sentimenti su cui si fonda il rapporto coniugale, e, nel contempo, essendo verosimilmente impossibile la ricostruzione di una serena vita coniugale.
Passando ad esaminare la sanzione dell’addebitabilità, il Collegio ritiene che la colpa della separazione debba essere addebitata al resistente, “attesa la sua violazione degli obblighi di fedeltà e di coabitazione di cui all’art. 143 cc”.
Con riguardo all’infedeltà, il Tribunale di Torre Annunziata fa proprio il consolidato indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale “l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile” (Cass. 25618/2007).
Lo stesso Collegio precisa che “Grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel ritenere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà” (Cass. 2059/2012).
Parimenti, con riferimento all’abbandono della casa coniugale, il Tribunale di Torre Annunziata evoca l’orientamento della Suprema Corte, secondo il quale “Il volontario abbandono del domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, salvo che si provi, e l’onere incombe su chi ha posto in essere l’abbandono, che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata ed in conseguenza di tale fatto” (Cass. 10719/2013).
Nell’affrontare la questione dell’assegnazione della casa coniugale, di cui i coniugi sono comproprietari, il Collegio ritiene che non possa essere accolta la domanda proposta dalla ricorrente (che rivendica il godimento esclusivo della casa familiare) né la domanda avanzata dal resistente (che rivendica l’assegnazione del 50% della casa coniugale).
I Giudici per motivare detta decisione argomentano nel modo seguente:
– L’art. 337 sexies cc prevede che “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.
– Sul tema, la Suprema Corte, in un primo momento ha ritenuto che, nell’ipotesi in cui la casa coniugale appartenga in comproprietà ad entrambi i coniugi, manchino figli minori o figli maggiorenni conviventi con uno dei genitori, ed entrambi i coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l’esercizio del potere discrezionale del giudice della separazione non può trovare altra giustificazione se non quella che, in presenza di una sostanziale parità di diritti, può essere favorito il solo coniuge che non abbia adeguati redditi propri, al fine di consentirgli la conservazione di un tenore di vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio. Da tanto discende che, laddove entrambi i coniugi comproprietari della casa familiare abbiano adeguati redditi propri, il giudice della separazione dovrà respingere le domande contrapposte di assegnazione del godimento esclusivo della casa stessa, lasciandone la disciplina agli accordi tra comproprietari, i quali, ove non riescano a raggiungere un ragionevole assetto dei propri interessi, restano liberi di chiedere la divisione dell’immobile dopo lo scioglimento della comunione familiare che consegue al passaggio in giudicato della sentenza di separazione (Cass. 822/1998).
– Successivamente, la Cassazione ha affermato che “L’assegnazione della casa familiare spetta di preferenza al coniuge affidatario dei figli, o con il quale convivono quelli maggiorenni. Requisito indefettibile resta comunque, la valutazione da parte del giudice delle condizioni economiche in cui versano i coniugi (Cass. 9071/2002).
– Infine, la Corte di Cassazione ha ritenuto che “Il previgente art. 155 cc, nel testo vigente sino all’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54, e il vigente art. 155 quater cc, in tema di separazione, come l’art. 6 della legge 898/70, subordinano l’adattabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare sia in comproprietà fra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva ad un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l’art. 156 cc, che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell’assegno di mantenimento (Cass. 3934/2008).
– In accordo a tale ultimo orientamento, il Tribunale di Torre Annunziata afferma che, risultando, nel caso concreto, tutti i figli dei coniugi economicamente autosufficienti, la richiesta di assegnazione della casa coniugale alla ricorrente non possa essere accolta, “non sussistendo il presupposto richiesto dalla legge”. Il medesimo Tribunale soggiunge che “anche la richiesta del resistente, di assegnazione di metà della casa coniugale, per le stesse ragioni, oltre che per l’addebito della separazione, non può essere accolta”.
La sentenza in esame risulta particolarmente significativa anche per la soluzione offerta in tema di risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dal coniuge e discendenti dalla violazione degli obblighi matrimoniali posta in essere dell’altro coniuge.
Sull’ammissibilità di tale domanda, in primo luogo, i Giudici evidenziano che “non può dubitarsi della connessione esistente tra la domanda risarcitoria del danno non patrimoniale e la sua richiesta di addebito della separazione al comportamento del marito, posto che la violazione dei basilari obblighi nascenti dal matrimonio è assunta dall’istante come causa del danno che assume di aver patito, sul quale si innesta la domanda risarcitoria, donde la legittimità del simultaneus processus, ai sensi dell’art. 40 cpc, in relazione all’art. 31 dello stesso codice di rito, nonostante la specialità del rito previsto per il procedimento di separazione giudiziale rispetto a quello ordinatorio relativo all’azione di risarcimento del danno per fatto illecito, diversità che può incidere sulle norme processuali applicabili ma che non può escludere l’unitarietà del processo”.
Giungendo a trattare la questione nel merito, i Giudici ribadiscono il principio in forza del quale si ritiene, in generale, che il risarcimento dei danni per condotte illecite relative alla violazione dei doveri sorgenti dal matrimonio sia riconoscibile, non potendo le sole conseguenze della separazione e del divorzio e degli ulteriori effetti scaturenti dalle relative discipline racchiudere tutte le conseguenze derivanti da tali comportamenti.
In particolare, la sentenza in parola rileva che “Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di un altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile”.
Da un lato, non può ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare.
Dall’altro lato, non deve escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio riceva la “propria sanzione”, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto do famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione o il divorzio o l’addebito, etc).
All’opposto, deve riconoscersi la compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione sia quale fatto generatore di responsabilità aquilana.
Sulla scia di tanto, in riferimento alla condotta illecita costituita dalla violazione del dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, il Tribunale di Torre Annunziata afferma che, “premesso che tale obbligo può venir meno, in attuazione di un diritto di libertà individuale riconoscibile all’art. 2 Cost. – posto che con il matrimonio, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo ius in corpus per tutta la vita potendo tali doveri venir meno con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge – una volta che il coniuge proponga domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio, se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi, non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sé a integrare una responsabilità risarcitoria dei coniugi che l’abbia compiuta, né tanto meno del terzo, che al su detto obbligo è del tutto estraneo”.
I Giudici puntualizzano che, “perché possa sussistere una responsabilità risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell’ipotesi di reato dovrà accertarsi anche la lesione, in conseguenza di detta violazione, di un diritto costituzionalmente protetto. Sarà, inoltre, necessaria la prova del nesso di causalità fra detta violazione ed il danno, che per essere a detto fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne deriva – obiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà – di per sè non risarcibile, costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto. Evenienza che può verificasi in casi e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specialità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità). Ovvero ove l’infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituisce bene costituzionalmente protetto”.
Nel caso specifico, la connaturazione pubblica delle relazioni adulterine e la dichiarazione pubblica dell’esistenza di un rapporto di fidanzamento tra il resistente e la compagna di turno e della falsa morte della ricorrente – evidentemente strumentale a giustificarne la condotta fedifraga – sono sufficienti per ritenere lesa la dignità della ricorrente.
In conclusione, attesa la oggettiva lesività della sfera psico-fisica, per la sofferenza morale e psicologica dalla ricorrente subita a causa del comportamento del resistente, la sentenza in commento condanna questi al pagamento, in favore della ricorrente, della somma di euro 5.000,00, equitativamente liquidata ai sensi degli artt. 2056 e 1226 cc, oltre gli ulteriori interessi legali sino al soddisfo.
Emiliana Matrone
www.consulenza-legale.info