L’ordinanza n. 242/2008, in vigore fino al 30 gennaio 2009, emessa dal Sindaco di Roma per contrastare la prostituzione su strada e per tutelare la sicurezza urbana, fa divieto «… a chiunque sulla pubblica via e su tutte le aree soggette a pubblico passaggio del Territorio del Comune di Roma… di contattare soggetti dediti alla prostituzione ovvero concordare con gli stessi prestazioni sessuali…» e «… di assumere atteggiamenti, modalità comportamentali ovvero indossare abbigliamenti che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di adescare o esercitare l’attività di meretricio…».
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, con la sentenza 22 dicembre 2008, n. 12222, afferma che tale ordinanza costituisce primo rimedio, peraltro ad tempus, dell’emergenza, non certo unica o del tutto nuova in Roma rispetto ad altri tempi o ad altri Comuni della Repubblica, della prostituzione su strada e degli effetti d’allarme e di disgregazione sociali che essa reca perché, finora, poco o punto controllata.
Non nega il Collegio, in linea di mero principio, che la complessità del fenomeno della prostituzione su strada abbisogni dell’approntamento d’un ventaglio variegato di rimedi e del coinvolgimento d’una pluralità di operatori, istituzionali e privati, sì da realizzare un approccio seriamente multidisciplinare e multisistemico al problema.
L’ordinanza in argomento, però, non prende per ora partito sulla bontà in sé di questo schema, ma attua, come s’è accennato poc’anzi, un primo tentativo a termine di riduzione del danno, nell’ambito del quale pure la gestione dell’ansia collettiva a causa della prostituzione su strada, ben lungi dall’essere una sorta di “concessione” ai benpensanti, costituisce invece una domanda sociale della collettività locale, ineludibile nel disegno del legislatore da parte dei Sindaci. Sicché l’ordinanza n. 242/2008 va letta ed interpretata, a fermo avviso del Collegio, in stretto raccordo con il d.m. 5 agosto 2008, nel senso che la regolazione nei confronti di sex workers e clientela denota un serio tentativo di valutazione contestuale dei comportamenti d’entrambi gli attori del mercato stesso. Né l’ordinanza appare, non essendovi alcun dato testuale conclusivo in tal senso, come una sorta di maldestro tentativo d’allontanare o, peggio, ghettizzare i sex workers in aree marginali o pericolose, ogni eventuale ipotesi di disciplina di zona della prostituzione su strada essendo rimessa ad altra e diversa fonte.
È indubbio che l’ordinanza abbia un contenuto anche dissuasivo delle transazioni nel mercato del sesso su strada, ma questo non è né l’unico, né il principale obiettivo, nel senso, cioè che l’ordinanza stessa mira ad attrarre ad illecito amministrativo, sia pur come primo approccio ed a termine, ogni forma non regolata o predefinita di street sex working, al precipuo fine di gestire i problemi sociali provocati sia dall’offerta in sé, sia dalla anomia della domanda, per i gravi pericoli alla circolazione stradale ed all’incolumità pubblica che questa comporta.
Inoltre, l’ordinanza non sanziona l’abbigliamento o l’atteggiamento dei soggetti di diritto sol perché denotino un dato gusto o un orientamento sessuale, ma mira a limitare solo quei comportamenti che, secondo il prudente e serio apprezzamento degli accertatori, sia strumentale all’esercizio del meretricio.
Emiliana Matrone
TAR Lazio, sezione II, 22 dicembre 2008, n. 12222
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Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio
Sezione II
Sentenza 22 dicembre 2008, n. 12222
FATTO E DIRITTO
1. – I sigg. M.P.C. e consorti dichiarano d’essere o sex workers o legali rappresentanti di enti associativi per la tutela dei diritti civili dei soggetti esercenti la prostituzione, mentre a sua volta il sig. P.F., residente in Palombara Sabina (RM) dichiara d’esser stato sanzionato in applicazione dell’ordinanza del Sindaco di Roma n. 242 del 16 settembre 2008.
I sigg. C. e consorti rendono altresì noto che detta ordinanza, in vigore fino al 30 gennaio 2009, reca interventi di contrasto alla prostituzione su strada e di tutela della sicurezza urbana, facendo divieto «… a chiunque sulla pubblica via e su tutte le aree soggette a pubblico passaggio del Territorio del Comune di Roma… di contattare soggetti dediti alla prostituzione ovvero concordare con gli stessi prestazioni sessuali…» e «… di assumere atteggiamenti, modalità comportamentali ovvero indossare abbigliamenti che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di adescare o esercitare l’attività di meretricio…». In alternativa alle sanzioni applicabili per la violazione dell’ordinanza, è prescritto che «… in piena sintonia con il dettato dell’art. 18 del Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286, i soggetti accertatori avvieranno le persone dedite alla prostituzione, vittime di violenza o grave sfruttamento ovvero in stato di particolare disagio, alle strutture di accoglienza del Comune di Roma per i previsti interventi di sostegno psicologico e reinserimento…».
I sigg. C. e consorti fanno presente pure che tali regole sono state dettate con riferimento alla novella recata dall’art. 6 del d.l. 23 maggio 2008 n. 92 (convertito, con modificazioni, dalla l. 24 luglio 2008 n. 125) all’art. 54, commi 4 e 4-bis del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267. Il nuovo c. 4 dispone che «… il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana…». Dal canto suo, il successivo c. 4-bis assegna al Ministro dell’interno il compito di disciplinare, con suo decreto, «… l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana…». È intervenuto sul punto il d.m. 5 agosto 2008 (in G.U. n. 186 del 9 agosto 2008), il cui art. 1 chiarisce che «… per incolumità pubblica si intende l’integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale…». Il successivo art. 2 impone al Sindaco d’intervenire per prevenire e contrastare, tra l’altro, «a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, quali… lo sfruttamento della prostituzione,…; e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi…».
2. – Ciò posto i sigg. C. e consorti si gravano innanzi a questo Giudice, con il ricorso in epigrafe, impugnando sia l’ordinanza sindacale n. 242/2008 sia il d.m. 5 agosto 2008. Al riguardo, i ricorrenti deducono in punto di diritto nove articolati gruppi di censure, intese a contestare i provvedimenti impugnati sotto il profilo sia procedimentale, sia della violazione di legge e dell’eccesso di potere per varie ragioni.
Resiste in giudizio l’intimato Comune di Roma, che eccepisce puntualmente l’infondatezza della pretesa attorea. S’è costituito in giudizio pure il Ministero intimato, il quale conclude per il proprio parziale difetto di legittimazione passiva e, nel merito, l’infondatezza del gravame in questione. Viceversa, l’ing. Giovanni ALEMANNO, in questa sede intimato quale controinteressato all’impugnazione attorea, non s’è costituito in giudizio, né v’ha spiegato difese.
All’udienza camerale del 17 dicembre 2008, uditi i patroni delle parti e sussistendo i presupposti ex art. 21, X c. della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio nelle forme di cui al successivo art. 26, V c.
3. – È manifestamente inammissibile l’intimazione che i ricorrenti fanno, in questo giudizio, nei confronti dell’ing. ALEMANNO, com’è noto Sindaco di Roma, individuandolo non solo come legale rappresentante pro tempore dell’ente locale e come ufficiale di Governo, ma anche come controinteressato alla loro impugnazione.
Tale evocazione in giudizio anzitutto è inutile, in quanto l’Autorità emanante dell’atto impugnato è, nel processo innanzi a questo Giudice, non già titolare d’una posizione di controinteresse, bensì al contempo diretta controparte del ricorrente e destinatario dei decisa scaturenti dal giudicato. Né basta: non consta in atti, né i ricorrenti dimostrano con serietà in che cosa mai si sostanzi una posizione peculiare e differenziata, in capo alla persona fisica dell’ing. ALEMANNO, al mantenimento degli atti impugnati, in più o in meglio rispetto alla massa dei residenti nel Comune di Roma.
4. – Passando al merito, il ricorso in epigrafe non ha pregio e va rigettato, per le considerazioni qui di seguito indicate.
In via preliminare, impingendo la relativa censura sulla procedura di formazione dell’impugnato d.m., con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono che questo sia stato emanato senza il prescritto parere obbligatorio del Consiglio di Stato e senza comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri, ancorché tali adempimenti, che l’art. 17, c. 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400 prescrive per i regolamenti ministeriali, siano obbligatori pure nella specie, non essendo stati derogati dall’art. 54, c. 4-bis, del d.lgs. 267/2000.
È materialmente vero che la procedura ex art. 17, c. 3, della l. 400/1988, non avendo tal disposizione natura di fonte rinforzata, ben può esser derogata da una volizione espressa scaturente da un atto-fonte di rango uguale o superiore, così come non consta che l’emanazione del predetto d.m. sia stato accompagnato dai predetti adempimenti.
Nondimeno, la soggezione a questi ultimi, o la necessità di derogarvi espressamente sarebbero state obbligatorie solo se l’impugnato d.m. fosse realmente un regolamento ministeriale. Al contrario, non solo vi manca un dato testuale univoco, ossia la dicitura «regolamento», che faccia concludere in tal senso, ma vi difetta il requisito dell’astrattezza, che deve accompagnare quello della generalità. È jus receptum (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 28 giugno 2007, n. 3777) che i regolamenti disciplinati dal ripetuto art. 17 devono, come tutti gli atti-fonte dell’ordinamento, essere assistiti, oltre che dalla generalità, pure dall’astrattezza che si compendia con l’attitudine della fonte all’applicazione ripetuta e alla non riferibilità alla cura concreta di interessi pubblici con effetti diretti nei confronti di soggetti anche indeterminati, purché determinabili (cfr. così Cass., III, 5 marzo 2007, n. 5062). Non è chi non veda come tal definizione non s’attagli all’impugnato d.m. il quale, per un verso, fissa una tantum le definizioni di «incolumità pubblica» e di «sicurezza urbana» e, per altro verso, serve essenzialmente, per quanto qui interessa, a curare gli interessi pubblici degli enti locali per quanto attiene ai fenomeni dello street sex working e della relativa clientela. Non basta allora predicare che il citato d.m. sia in parte esecutivo dell’art. 54, commi 1 e 4, del d.lgs. 267/2000 ed in parte l’integrazione di clausole generali poste da tali fonti primarie, giacché esso non regola una serie indefinita di fattispecie riferibili a dette clausole, ma si limita a fissare linee-guida atte ad indirizzare ed uniformare, per tutto il territorio della Repubblica, la potestà sindacale d’ordinanza in materia.
È appena da osservare che, pur ad accedere alla non condivisa tesi attorea, l’eventuale eliminazione dell’impugnato d.m. non eliderebbe di per sé l’ordinanza n. 242/2008, in quanto questa ripete comunque la sua validità dall’art. 54, c. 4, del d.lgs. 267/2000 e, quindi, spetterebbe pur sempre al Sindaco, in base ad un suo prudente apprezzamento discrezionale dei singoli casi alla sua attenzione, se ascriverli, o meno, alle predette clausole, regolandoli di conseguenza ed in modo da scongiurare i «gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana…».
5. – Non maggiori profili di fondatezza sono rinvenibili nel primo mezzo di gravame, laddove, a detta dei ricorrenti, di fatto l’impugnato d.m. e non la legge avrebbe creato la norma specifica in tema di sicurezza pubblica.
Poiché il ripetuto art. 54, c. 4-bis, demanda il contenuto di tal clausola generale alle linee-guida ministeriali, come si vede, il legislatore ordinario, consapevole della rigidità e dell’incompletezza d’ogni definizione troppo casuistica in materia, ha preferito stabilire, con la fonte primaria, una disciplina generale atta a regolare un ampio numero di casi, ovviando in tal modo agli inconvenienti, tipici delle fattispecie a costruzione casistica, di determinare nel tempo lacune via via crescenti. Così il legislatore ha inteso rimettere alla prudente valutazione di quella P.A., per legge investita anche dell’analisi e della disamina dei comportamenti inerenti all’ordine ed alla sicurezza pubblici, di fissare un’acconcia definizione di sicurezza urbana.
Ebbene, quest’ultima è indicata come il «… rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale…». Si tratta d’una definizione che, ad una sua serena lettura ed anche alla luce di un’elaborazione complessa ed articolata delle scienze criminologica e sociologica, s’appalesa non solo razionale e proporzionata rispetto alla clausola che intende interpretare, ma soprattutto descrittiva delle utilità pubbliche della sicurezza e dell’integrità della convivenza civile in ambito cittadino. Per vero, il d.m. impugnato fornisce della sicurezza pubblica una precisazione ben ferma ed ancorata a criteri obiettivi, sì da garantire uniformità e rigore nell’esercizio di quella discrezionalità, propria del potere sindacale d’ordinanza di cui i livelli di governo locali possono avvalersi in base all’art. 54, commi 1 e 4, del d.lgs. 267/2000 non solo in via d’urgenza, ma soprattutto in via ordinaria. E ciò per rispondere, in modo più rapido e flessibile, alla domanda di vita ordinata e socialmente non degradata che le collettività locali rivolgono anzitutto ai loro enti esponenziali.
La volizione del legislatore è, dunque, rivolta sia ad ampliare la sfera d’intervento e di responsabilità degli amministratori locali, mercé l’attribuzione ad essi di poteri ordinari e straordinari a fronte dell’insicurezza derivante, specie nei grandi centri urbani, dal complesso dei gravi fenomeni di degrado civile e sociale; sia a contemperare, attraverso l’interposizione delle precisazioni recate dal d.m. impugnato tra la fonte primaria ed il concreto provvedere, siffatte esigenze locali con l’unitarietà dell’ordinamento e con l’uso corretto, razionale e proporzionato della discrezionalità sottesa alla potestà d’ordinanza.
Errano, perciò, i ricorrenti nell’interpretare il d.m. impugnato come se fosse la fonte innovativa ex abrupto di un ordinamento ignaro delle predette esigenze e non l’atto d’indirizzo (e di limitazione) della discrezionalità sindacale a’ sensi, ossia in conformità, per i fini e nei limiti di cui all’art. 54, commi 1 e 4, del d.lgs. 267/2000 e secondo i valori che lo stesso d.m. esprime, in un contesto ove, nonostante il fiorire di commissioni di studio e d’una pluralità di metodiche di riduzione del danno, la pressione sociale della prostituzione su strada permane attuale. Errano a più forte ragione allorquando tendono a ridurre la potestà ex art. 54 alla risoluzione dei soli casi estremi di necessità ed urgenza, non tenendo conto dell’intera riscrittura del medesimo art. 54 e, soprattutto, del rafforzamento dei poteri del Sindaco quale ufficiale di Governo, ossia come soggetto attuatore, in ambito locale ed in relazione alle domande sociali di sicurezza che di volta in volta le singole collettività pongono, delle regole all’uopo stabilite a garanzia dell’unità dell’ordinamento e della stabilità sociale della Repubblica. Errano infine laddove ritengono, sia pur con un argomento ad colorandum, che l’aggettivo «urbano» debba esser inteso solo come delimitazione territoriale del concetto di sicurezza e non «… certo come certezza dell’urbanità dei cittadini…», ché tal aggettivo riguarda non già, o non solo il limite spaziale d’efficacia delle ordinanze sindacali, ma anche la stretta correlazione tra fenomeni di degrado civile o sociale o che destano grave allarme, in sé d’ordine globale, e la loro capacità di manifestarsi nel modo più patente o parossistico proprio nelle realtà urbane.
Ora, il Collegio non dura fatica a riconoscere che, di per sé solo e per una probabilità statistica che non si può a priori escludere, il fenomeno della prostituzione su strada, ossia lo scambio negoziato tra rapporti sessuali ed una remunerazione in denaro o in natura, possa essere un atteggiamento con cui s’esplica la libertà sessuale dei singoli, sex worker o cliente che sia.
Ciò, però, non toglie che la prostituzione su strada sia anche, con ogni e più forte ragionevole probabilità, il terminale d’una filiera criminale, non importando poi se essa implichi, o no, una delle possibili varianti comprese tra la soggezione del sex worker a guisa di schiavitù con gli sfruttatori ed una forma di sua libera compartecipazione ai relativi utili.
Foss’anche, però, del tutto libera, la prostituzione su strada, proprio per il tipo d’offerta che propone, in ogni caso sottrae spazi di vita sociale e civile al resto della collettività, che in pari libertà d’espressione e di pensiero degli street sex workers, può non condividerne, né accettarne il mercato ed i suoi effetti. Irrilevante s’appalesa allora il fatto che, da sola, la prostituzione non costituisca reato, perché, per un verso, essa dà luogo a negozi illeciti per violazione dell’ordine pubblico e del buon costume, donde l’attuale disvalore in sé giuridico dell’attività stessa, anche nei confronti dei relativi consumatori. E per altro verso, già da sola, ossia anche a non considerare gli effetti criminali che l’accompagnano o la inducono, nella sua dimensione attuale essa s’impone alla restante collettività per sua forza non di libera concorrenza ma pervasiva, ossia come uno spazio di mercato del tutto anomalo e che la cittadinanza subisce e sente come degrado della convivenza civile. Non basta allora asserire la libertà sessuale dei due attori principali del mercato della prostituzione, in quanto ciò non tien conto, in modo alquanto semplicistico, anche delle pressioni di terzi sulle relative transazioni e sugli effetti di traboccamento nocivo che tal mercato determina sul contesto sociale. Del pari, se tale libertà, dei singoli e dei gruppi, non è sindacabile dalla legge e men che mai un provvedimento amministrativo, non per ciò solo la prostituzione su strada è comunque libera, come d’altronde non lo è alcun’attività economica che, per la sua natura, tende a spostare, in tutto o in parte, i costi di transazione su soggetti terzi, ossia non interessati od ostili all’acquisizione dell’utilità così scambiata.
Il Collegio è ben consapevole che per il solo fatto dell’esercizio dell’attività, i soggetti in questione non debbano esser né discriminati, né tampoco colpevolizzati, così come non è ammesso reprimere di per sé il relativo fenomeno.
In disparte la possibilità d’un forse più penetrante controllo sulla prostituzione in appartamento o al chiuso – grazie anche alla maggior réclame che questa implica -, sfugge però al Collegio perché mai il mercato dello street sex debba imporsi, allo stesso tempo, come libera espressione della sessualità dei singoli e come attività lavorativa, senza soggiacere a qualunque controllo non solo dell’Autorità, ma soprattutto dal “basso”, ossia da parte di quella collettività nel cui ambito poi tale attività si svolge.
Non considerano al riguardo i ricorrenti che ritenere la prostituzione su strada come mera attività lavorativa, con ogni evidenza autonoma – ché ogni lucro di terzi su questa s’appalesa penalmente illecita -, resta pur sempre soggetta ai limiti ex art. 41, II c., Cost., per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Né con ogni evidenza i ricorrenti s’accorgono, pur allegando agli atti di causa i relativi documenti, come proporre ed imporre sic et simpliciter la prostituzione su strada su un dato territorio di per sé contrasti con la visione di questa come un fenomeno complesso, da gestire in un’ottica di sicurezza sociale. In altri termini, la sottovalutazione degli effetti nocivi del street sex sulle collettività è in patente contrasto con quell’intervento di riduzione del danno sociale da insicurezza che s’attua, al medesimo tempo, con la negoziazione delle conflittualità connesse alla prostituzione e con i percorsi di sostegno a favore dei sex workers. Non allora è chi non veda come siffatta non perspicuità delle censure così poste muove dall’irrisolta tensione, nel ricorso in epigrafe, delle definizioni della prostituzione su strada, prospettata dai sigg. C. e consorti, nei singoli motivi ed all’interno di ciascun motivo, di volta in volta e secondo le esigenze argomentative come forma o di libertà sessuale, o di lavoro autonomo o di vicenda illecita che necessita d’assistenza a favore dei street sex workers. Sicché i ricorrenti non intendono la prostituzione su strada come un fenomeno complesso, che è al medesimo tempo questi tre aspetti e pure tutti gli altri, nocivi, complessi e non eludibili e nei cui confronti gli atti impugnati, ben lungi dal ridurre spazi di libertà, tentano un primo approccio complessivamente riduttivo dei danni sociali.
Non a caso l’impugnato d.m. reprime, come illecito amministrativo, più che lo street sex in sé, quelle sue pratiche che, specie se non previamente negoziate tra tutti gli attori sociali e maxime gli abitanti del territorio in cui v’è il mercato sessuale, alimentano i fattori disgreganti di sicurezza e coesione sociale. Si tratta, per vero, di tutte quelle pratiche che offendono il bene giuridico protetto della pubblica decenza e dell’honeste vivere per le loro modalità di manifestazione, o perché limitano l’altrui libertà alla vita serena ed alla libera fruizione di spazi pubblici occupati per il mero tornaconto di chi organizza ed esercita il meretricio. E l’interesse di questi soggetti s’appalesa, già in sé e non solo nella comparazione che ne fanno gli atti impugnati, recessivo rispetto agli altri testé accennati, invece coperti da valori costituzionali (libertà d’esplicazione della personalità, libertà personale, libertà di circolazione, diritto di proprietà, diritti di cittadinanza, ecc.) perlomeno pari, se non addirittura superiori all’esercizio della prostituzione su strada, quand’anche fosse attuata quale mera esplicazione del proprio orientamento sessuale. È appena da soggiungere come siffatta recessività è massima ove si verifichi l’insorgere ed il proliferare dello sfruttamento e della tratta dei sex workers, quand’anche costoro s’organizzino in via autonoma e ritengano per sé una parte del ricavo e ne cedano a terzi organizzatori non lavoratori la restante parte (arg. ex Cass. pen., II, 10 giugno 2008, n. 25682).
Poiché, dunque, queste dianzi descritte costituiscono situazioni complesse e non congiunturali e poiché è lo stesso art. 54, c. 4, del d.lgs. 267/2000 a non limitare gli interventi dei Sindaci ai soli casi d’estrema necessità ed urgenza, ma a dar loro la possibilità di graduare gli strumenti di riduzione del danno in relazione al tipo ed alla qualità degli eventi, allora è la legge e non il d.m. impugnato a fondare e dirigere la potestà sindacale d’ordinanza.
6. – Del tutto infondate son poi le censure dei ricorrenti in ordine alla pretesa violazione dell’art. 23 Cost., o del principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, in quanto, da un lato, è la legge a porre la potestà d’ordinanza de qua a guisa di strumento ordinario e non meramente straordinario per risolvere le criticità strutturali della sicurezza urbana e, dall’altro, l’ordinanza in sé è un provvedimento nominato, ma a contenuto e ad effetti variabili, a seconda del modo d’atteggiarsi in concreto della vicenda da risolvere.
Parimenti privo di pregio è l’assunto attoreo secondo cui l’ordinanza n. 242/2008 rechi un approccio meramente repressivo, sia perché esso in sé non è né illegittimo, né erroneo, né inopportuno secondo le regole tecniche di riduzione del danno derivante della prostituzione, sia perché esso affronta anche il problema della clientela mercé una forma di prima dissuasione verso il mercato del sesso a pagamento, sia, infine, perché la sanzione è addirittura sostituita dall’accompagnamento dei sex workers alle forme d’assistenza (sostegno psicologico e reinserimento) approntate dal Comune, affinché, se lo desiderano, possa per loro iniziare un iter di fuoriuscita dalla condizione di prostituzione.
Non è allora chi non veda come l’impugnata ordinanza serva quale primo rimedio, peraltro ad tempus, dell’emergenza, non certo unica o del tutto nuova in Roma rispetto ad altri tempi o ad altri Comuni della Repubblica, della prostituzione su strada e degli effetti d’allarme e di disgregazione sociali che essa reca perché, finora, poco o punto controllata.
Non nega il Collegio, in linea di mero principio, che la complessità del fenomeno della prostituzione su strada abbisogni dell’approntamento d’un ventaglio variegato di rimedi e del coinvolgimento d’una pluralità di operatori, istituzionali e privati, sì da realizzare un approccio seriamente multidisciplinare e multisistemico al problema.
L’ordinanza impugnata, però, non prende per ora partito sulla bontà in sé di questo schema, ma attua, come s’è accennato poc’anzi, un primo tentativo a termine di riduzione del danno, nell’ambito del quale pure la gestione dell’ansia collettiva a causa della prostituzione su strada, ben lungi dall’essere una sorta di “concessione” ai benpensanti, costituisce invece una domanda sociale della collettività locale, ineludibile nel disegno del legislatore da parte dei Sindaci. Sicché l’ordinanza n. 242/2008 va letta ed interpretata, a fermo avviso del Collegio, in stretto raccordo con il d.m. 5 agosto 2008, nel senso che la regolazione nei confronti di sex workers e clientela denota un serio tentativo di valutazione contestuale dei comportamenti d’entrambi gli attori del mercato stesso. Né l’ordinanza appare, non essendovi alcun dato testuale conclusivo in tal senso, come una sorta di maldestro tentativo d’allontanare o, peggio, ghettizzare i sex workers in aree marginali o pericolose, ogni eventuale ipotesi di disciplina di zona della prostituzione su strada essendo rimessa ad altra e diversa fonte.
È indubbio che l’ordinanza abbia un contenuto anche dissuasivo delle transazioni nel mercato del sesso su strada, ma questo non è né l’unico, né il principale obiettivo, nel senso, cioè che l’ordinanza stessa mira ad attrarre ad illecito amministrativo, sia pur come primo approccio ed a termine, ogni forma non regolata o predefinita di street sex working, al precipuo fine di gestire i problemi sociali provocati sia dall’offerta in sé, sia dalla anomia della domanda, per i gravi pericoli alla circolazione stradale ed all’incolumità pubblica che questa comporta.
Diversamente da ciò che poi opinano i ricorrenti, l’ordinanza non sanziona certo l’abbigliamento o l’atteggiamento dei soggetti di diritto sol perché denotino un dato gusto o un orientamento sessuale, ma mira a limitare solo quei comportamenti che, secondo il prudente e serio apprezzamento degli accertatori, sia strumentale all’esercizio del meretricio.
Scolorano così tutte le considerazioni dei ricorrenti circa l’inutilità dell’impugnata ordinanza a fronte di altre e vigenti forme o disposizioni repressive di natura penale, in materia d’offesa al pudore e, rispettivamente, in tema d’abbandono di rifiuti solidi o liquidi. I ricorrenti, per vero, non considerano che né la prostituzione su strada in sé, né tampoco la domanda della clientela sono illeciti penalmente rilevanti, ma costituiscono pur sempre la fonte di un’insicurezza collettiva e diffusa che, ove non regolata, in ultima analisi determinerebbe proprio quei nocivi effetti di discredito e di astio verso gli street sex workers che i ricorrenti stessi vorrebbero scongiurare. Pertanto, poiché né la prostituzione, né la richiesta non coercitiva di prestazioni sessuali a pagamento attingono da soli alle soglie della punibilità a’ sensi degli artt. 527 e 726 c.p., poiché l’abbandono di beni e/o di rifiuti organici è già sanzionato dagli artt. 192 e 255 del d.lgs. 152/2006 indipendentemente dal fatto che tali condotte illecite riguardino, o no, l’esercizio della prostituzione e poiché le questioni di traffico son già disciplinate dagli artt. 6 e 7 cod. strad., l’impugnata ordinanza assume tali dati non per doppiarne la sanzione, ma quali cause del disagio sociale da contenere e diminuire. L’ordinanza considera allora tali vicende a guisa di presupposti che muovono il Sindaco ad intervenire illico et immediate con acconce misure regolative e di salvaguardia igienico-ambientale, salve poi quelle che le competenti Autorità intendano assumere sul medesimo fenomeno.
Manifestamente privo di pregio è poi il preteso difetto d’istruttoria che irretirebbe l’impugnata ordinanza, quasi che questa sia stata assunta sulla scorta di dati giornalistici o di chiacchiere da bar. Al contrario, la necessità dell’intervento sindacale muove dall’entità del fenomeno della prostituzione su strada che non solo è notoria, ma è pure facilmente verificabile già alla luce dei dati degli organismi di studio (Osservatorio sulla prostituzione presso il Ministero dell’interno; Commissione interministeriale per il sostegno alle vittime di tratta, violenza o grave sfruttamento) che i ricorrenti pure versano agli atti causa. Tanto non volendo considerare che siffatta entità è ictu oculi dimostrata dalla produzione documentale attorea all’udienza camerale, da cui evincesi il numero dei soggetti sanzionati (1091, fino al 23 novembre 2008) e fermati dall’Autorità di PS nel medesimo periodo (1520), situazioni, queste, che ad una loro serena lettura, denotano la pervasività in sé del fenomeno da un tempo ben anteriore all’emanazione non solo degli atti impugnati, ma addirittura della novella recata all’art. 54 del d.lgs. 267/2000.
Infine, non ha pregio il settimo motivo di gravame, in quanto è una mera petizione di principio l’assunto attoreo circa l’assenza delle situazioni di pericolo o di grave disagio sociale da cui prende le mosse l’impugnata ordinanza. È del tutto infondato l’ottavo motivo, perché la dedizione alla prostituzione si ha, in base ai dati evincibili dall’ordinanza n. 242/2008, per il sol fatto dell’intenzione d’offrire prestazioni sessuali dietro compenso, con o senza adescamento, così come l’intenzione di quest’ultimo o d’esercitare il meretricio sono già di per sé gli elementi costitutivi degli atteggiamenti sanzionabili. È da rigettare anche il nono motivo, giacché la commissione d’un illecito amministrativo rileva in sé, onde l’applicazione dell’art. 13 della l. 689/1981 al soggetto sanzionato consegue direttamente dall’illecito stesso e non già dal fatto che quest’ultimo afferisca o comunque riguardi la prostituzione.
7. – La complessità e la novità della questione suggeriscono l’integrale compensazione, tra tutte le parti costituite, delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. 2°, definitivamente pronunciando, in parte dichiara inammissibile il ricorso n. 10686/2008 in epigrafe e lo respinge per la restante parte.
Spese compensate.
Ordina all’Autorità amministrativa d’eseguire la presente sentenza.