Tar Lazio – Sentenza del 24.01.2008 n. 562 – Demolizione opere abusive
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DEL LAZIO – Sezione I-quater –
ha pronunciato la seguente
Sentenza
sul ricorso n. 4295 del 2007, proposto da San G. srl, in persona del legale rappresentante p.t.,
contro
il Municipio di Roma XI, in persona del Presidente p.t.;
il Dirigente dell’U.O.T. del Municipio di Roma XI;
il Comune di Roma, in persona del Sindaco p.t.; rappresentato e difeso dall’Avv. Rosalda Rocchi ed elettivamente domiciliato presso il difensore nella sede dell’Avvocatura Comunale in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;
per l’annullamento, previa sospensione,
della determinazione dirigenziale prot. n. 79488 dell’1 dicembre 2006, notificata il successivo 16 febbraio 2007, nonché di ogni atto precedente, connesso e consequenziale;
Visto il ricorso con la relativa documentazione; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma; Visti le memorie ed i documenti prodotti dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Relatore alla pubblica udienza del 20 novembre 2007 il Primo Referendario Antonella Mangia; uditi, altresì, i procuratori delle parti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:
Fatto
Attraverso il ricorso in epigrafe, notificato in data 17 aprile 2006 e depositato il successivo 16 maggio 2007, la ricorrente impugna la determinazione dirigenziale prot. n. 79488 dell’1 dicembre 2006, con la quale il Comune di Roma, Municipio XI, ha determinato nei suoi confronti la demolizione di opere edilizie abusivamente realizzate (rectius: una veranda in legno di m. 8,00 x 13,50 x 2,60 e due tettoie), chiedendone l’annullamento.
In particolare, espone: – di essere proprietaria e di gestire un complesso sportivo, che comprende campi da tennis, campi di calcetto, piscina, fabbricati vari destinati a spogliatoi, magazzini, ufficio, bar e ristorante; – di seguire da qualche anno la prassi di avvalersi durante la bella stagione di tre strutture precarie, interamente in legno; – che in data 7 giugno 2005 – nell’ambito di una vasta operazione compiuta in tutta la zona – il Corpo della Polizia Municipale effettuava un sopralluogo presso il complesso; – che, in esito a detto sopralluogo, riceveva la notifica di due determinazioni dirigenziali di revoca delle licenze per il bar ed il ristorante, sospese da questo Tribunale con ordinanza n. 4228 del 17 luglio 2006; – che, in relazione alle opere edilizie in trattazione, indicate come “pergole in legno”, scaturiva, altresì, un procedimento penale, archiviato dal GIP in data 24 ottobre 2006; – che in data 16 febbraio 2007 perveniva, poi, la notifica del provvedimento in epigrafe, nell’ambito del quale le “pergole in legno” erano “trasformate” in “tettoie” e “verande”.
Avverso tale provvedimento la ricorrente insorge, formulando i seguenti motivi di impugnativa: I. Violazione e falsa applicazione dell’art. 31 del DPR 6 giugno 2001, n. 380; Eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento di circostanze di fatto e di diritto; Difetto assoluto di motivazione. Le opere in contestazione non sono soggette a permesso di costruire perché si tratta di mere pergole in legno, pertinenziali alla piscina ovvero al ristorante, precarie e stagionali. Sono, infatti, aperte su tutti e quattro i lati, ovvero, nel solo caso di quella pertinenziale al ristorante, su tre lati e sono provviste di coperture mobili, ritraibili (teli avvolgibili in pvc). Il provvedimento è immotivato. II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/90.
Con atto depositato in data 23 maggio 2007 si è costituita l’Amministrazione intimata, la quale – nel prosieguo e precisamente in data 28 maggio 2007 – ha depositato documenti.
Con ordinanza n. 2615 del 5 giugno 2007, il Tribunale ha accolto la domanda incidentale di sospensione “limitatamente al periodo estivo e comunque fino al termine ultimo del 31.10.2007”. Dopo aver provveduto al deposito di ulteriori documenti, in data 2 novembre 2007 il Comune di Roma ha depositato una memoria, i cui contenuti possono essere così sintetizzati: – le opere accertate non sono apparse precarie per come sono state costruite e per l’attitudine del bene alla destinazione cui è deputato; – le stesse opere non sono pertinenze perché rappresentano un quid novi rispetto all’immobile preesistente, hanno accresciuto il carico urbanistico della zona, sono autonome ed indipendentemente utilizzabili ed, anzi, la veranda rappresenta un vero e proprio ampliamento; – per quanto attiene alla violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90, trova applicazione l’art. 21 octies della medesima legge; – riguardo la carenza di motivazione, è sufficiente l’accertamento della non corrispondenza del manufatto al dettato normativo perché scatti l’obbligo di repressione dell’abuso edilizio. Il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 20 novembre 2007.
Diritto
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
2. Come esposto nella narrativa che precede, la ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione con la quale il Comune di Roma ha determinato nei suoi confronti la demolizione di opere edilizie perché eseguite “senza concessione edilizia”, individuate in una veranda e due tettoie.
Al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento formula svariate censure, le quali sono prive di giuridico pregio.
2.1. In primis, il Collegio osserva che le opere in contestazione – in ragione della consistenza che le connota – debbono essere considerate “interventi di nuova costruzione”, soggetti, in quanto tali, al regime di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/01.
In particolare, va rilevato che tali opere – ancorché con copertura in pvc – costituiscono inconfutabilmente nuovi organismi edili, caratterizzati da un proprio impatto volumetrico e ambientale e, dunque, idonei a determinare una trasformazione del territorio.
Del resto, è noto che la nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino una perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dai materiali utilizzati nonché dalla amovibilità o meno delle opere (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 3490 del 13 giugno 2006)
E’ da aggiungere, poi, che non sussiste un collegamento funzionale tra le opere e il soddisfacimento di esigenze temporanee, le quale debbono essere intese in termini di esigenze di carattere meramente “transitorio”, ossia di esigenze che – in quanto connesse con fini contingenti e cronologicamente determinati ossia a situazioni di durata almeno “concettualmente” predefinita – sono indefettibilmente destinate ad esaurirsi nel tempo.
Orbene, appare evidente che la “stagionalità” è un concetto estraneo alla “temporaneità”. Più precisamente, la natura stagionale dell’opera – la quale non risulta, tra l’altro, adeguatamente comprovata dalla ricorrente – implica il riproporsi dell’esigenza che l’opera tende a soddisfare di anno in anno, imprimendo così all’esigenza stessa un carattere perdurante nel tempo.
In altri termini, va segnalato che – ai fini della necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire – il carattere stagionale del manufatto realizzato non rileva, atteso che tale carattere non implica la precarietà dell’opera, potendo essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la perpetuità della sua funzione (cfr. Cass. Pen., III, sent. n. 13705 del 21 febbraio 2006; TAR Lazio, Roma, Sez. II, sent. n. 1595 dell’1 marzo 2002). In ultimo, va, altresì, esclusa la sussistenza della natura pertinenziale delle opere. E’ noto che alla nozione di pertinenza edilizia, in passato soggetta al regime autorizzatorio in luogo di quello concessorio ex art. 7, comma 2, lett. a), del d.l. 23 gennaio 1982, n. 2, convertito nella legge 25 marzo 1982, n. 94, sono state sempre riconosciute peculiarità proprie, diverse da quelle della nozione civilista, dovendo essere intesa in riferimento ai principi della materia. E’ stato così delineato un concetto di pertinenza edilizia più restrittivo di quello delineato dal codice civile basato essenzialmente sull’oggettività del rapporto con l’opera principale e sulla consistenza. In altri termini, la pertinenza edilizia è stata identificata esclusivamente con i manufatti che – posti in relazione con il manufatto principale – risultassero: – di dimensioni modeste; – non suscettibili di autonoma utilizzazione ovvero funzionalmente destinati ad offrire un servizio e/o un ornamento mediante un nesso oggettivo, cioè un nesso che, per natura e struttura dell’opera, non consenta una diversa destinazione; – tali da non alterare in modo significativo l’assetto del territorio.
L’intervento della nuova disciplina in materia urbanistico-edilizia introdotta con il D.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001 e successive modificazioni ha innovato la materia, per cui – argomentando dall’art. 3, comma 1, lett. e.6, del citato D.P.R. – debbono essere ricondotti nell’ambito della categoria gli interventi che, pur sempre caratterizzati dal nesso funzionale e strumentale (stante la specifica “pertinenziali”), comportino la realizzazione di un volume non superiore al 20% di quello dell’edificio principale e quelli che non sono qualificati come interventi di nuova costruzione dalle norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione ed al pregio ambientale e paesaggistico delle aree.
Orbene, è da rilevare che la ricorrente non ha fornito elementi e/o indicazioni idonei a fornire prova della sussistenza dei requisiti prescritti. Per contro, appare evidente che le opere in contestazione si prestano ad un’utilizzazione autonoma e, dunque, esprimono una propria autonomia funzionale ed economica, oltre che – come già inizialmente osservato – un proprio impatto volumetrico.
2.2. La censura afferente il difetto di motivazione non è, poi, meritevole di condivisione per le ragioni che seguono.
Conformemente all’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, osserva, infatti, il Collegio che i provvedimenti di demolizione di opere abusive sono atti dovuti, sufficientemente motivati con l’affermazione dell’accertata realizzazione di interventi edilizi in carenza del prescritto titolo abilitativo.
In relazione a provvedimenti di tal genere, l’obbligo di motivazione è, dunque, da intendere nella sua essenzialità, ossia è da intendere assolto con l’indicazione dei meri presupposti di fatto (constatazione dell’esecuzione di opere edilizie in difformità del permesso di costruire o in assenza del medesimo), che poi determinano l’applicazione dovuta delle misure sanzionatorie previste (cfr., tra le tante, C.d.S., Sez. V, n. 5058/2002; TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, n. 305/2006).
3. In ragione di quanto già rappresentato, appare palese che il contenuto dispositivo del provvedimento “non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Come ormai noto, a ciò consegue l’inidoneità dei vizi di procedura – quale è la denunciata violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90 – o di forma a determinare l’annullamento del provvedimento stesso, a norma dell’art. 21 octies, comma 2, della già richiamata legge n. 241/90, nel testo innovato dalla legge n. 15/05.
4. In base alle considerazioni esposte, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate a favore del Comune di Roma in Euro 1.000,00, oltre IVA e CPA nei termini di legge.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sezione I quater respinge il ricorso n. 4295/2007. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in motivazione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.