Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, con la sentenza del 12 giugno 2006 n.13523, hanno affermato che le domande intese a far valere le violazioni ai limiti legali della proprietà non solo sono suscettibili di trascrizione ai sensi dell’art. 2653, numero 1), cod. civ., ma, anzi, devono essere trascritte perché l’attore possa utilmente opporre la sentenza favorevole ottenuta nei confronti del convenuto anche al terzo acquirente dal convenuto stesso con atto trascritto successivamente alla trascrizione della domanda.
Cassazione civile, sez. un., 12 giugno 2006, n.13523
Fatto
I.F. realizza un edificio in (OMISSIS) e ne aliena i singoli appartamenti; realizza, poi, sull’area latistante all’edificio, dodici box per auto e li aliena a loro volta.
P.S., acquirente d’uno degli appartamenti, ritenendo che i box fossero stati realizzati a distanza dall’edificio inferiore a quella prescritta dal regolamento edilizio locale, conviene in giudizio I.F. onde sentirlo condannare alla demolizione dei box.
I.F. resiste alla domanda.
Il Tribunale di Nola accoglie parzialmente la domanda, disponendo che sette dei box vengano arretrati per la parte risultata non conforme alle disposizioni regolamentari in quanto realizzata a distanza inferiore ai 13,90 metri dall’edificio.
Avverso tale sentenza I.F. propone appello cui aderiscono, con appello incidentale ad adiuvandum, C.C. ed altri sei consorti, tutti acquirenti dei box, i quali, contestualmente, propongono anche appello incidentale autonomo inteso a far dichiarare comunque inopponibile nei loro confronti la sentenza resa tra il P. e lo I..
La Corte d’Appello di Napoli rigetta entrambi i gravami evidenziando, per quanto interessa in questa sede, come la situazione soggettiva fatta valere dagli acquirenti fosse, ex art. 111 c.p.c., dipendente da quella del venditore e non potesse essere utilmente invocata l’inopponibilità per mancata trascrizione della domanda, ciò sulla considerazione che la previsione dell’art. 2653 c.c., n. 1, non troverebbe applicazione, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi di domanda intesa a far valere il rispetto dei limiti legali della proprietà.
Inerte lo I., il C. e consorti impugnano anche tale sentenza con ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, l’uno dei quali investe la questione della possibilità di trascrivere la domanda intesa a far valere il rispetto delle distanze legali tra edifici, ai fini dell’opponibilità della sentenza ai terzi successori a titolo particolare per atto tra vivi, evidenziando come la tesi da essi prospettata al Giudice di secondo grado fosse suffragata da altra giurisprudenza di legittimità immotivatamente negletta nell’impugnata sentenza.
Resiste il P. con controricorso.
La Seconda Sezione, riconosciuto il contrasto in ordine alla detta questione, ne ha rimesso la soluzione a queste Sezioni Unite.
Diritto
Con il primo motivo, i ricorrenti – denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., art. 873 c.c., art. 29 reg. edilizio, art. 14 preleggi, L. n. 122 del 1989, in generale, nonchè vizi di motivazione – rilevano che anche dalla consulenza risultava come i box fossero stati realizzati nella parte retrostante del cortile già realizzato, onde il Giudice a quo avrebbe erroneamente ritenuto applicabile la norma regolamentare di cui all’art. 48, per la quale la distanza è di m. 13,90, anzichè quella speciale di cui al precedente art. 29, per la quale nel caso di cortili la distanza minima è di m. 8; che, inoltre, la L. n. 122 del 1989, applicabile nella specie in quanto meno restrittiva ed in assenza di giudicato (come precisato in memoria), pone una deroga al rispetto delle distanze legali relativamente ai parcheggi privati in vista dell’interesse pubblico ad una migliore gestione delle aree di sosta.
Con il secondo motivo, i ricorrenti – denunziando violazione degli artt. 813, 949 e 2653 c.c., nonchè omessa motivazione – si dolgono che il Giudice a quo abbia affermato l’opponibllità della sentenza impugnata ad essi terzi acquirenti, nonostante la domanda introduttiva del giudizio promosso dal P. nei confronti dello I. non fosse stata trascritta, sull’erroneo convincimento, apoditticamente motivato con riferimento ad una sola parte della giurisprudenza in materia non sottoposta a vaglio critico in relazione alla giurisprudenza contraria pur segnalatagli, che la detta domanda non fosse suscettibile di trascrizione.
Con il terzo motivo, i ricorrenti – denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 111 c.p.c. – si dolgono che il Giudice a quo non abbia ravvisato la natura strumentale della lite, tesa al raggiungimento di non meglio precisate utilità diverse dalla riduzione in pristino degli immobili da parte del P., atteso che questi aveva alienato l’appartamento in corso di causa e che nell’atto pubblico s’era impegnato alla prosecuzione del giudizio con la precisazione che sarebbe andato a suo esclusivo favore “tutto ciò che la parte venditrice riceverà dal predetto giudizio”, mentre “l’eventuale risultato di ripristino dell’originaria consistenza dei beni comuni andrà a beneficio dell’immobile venduto”.
Il secondo dei riportati motivi è fondato ed, atteso l’oggetto degli altri, all’evidenza assorbente.
Come già rilevato nell’ordinanza di rimessione, l’indirizzo giurisprudenziale tradizionale, dal quale si escludeva la trascrittibilità ex art. 2653 c.c., n. 1, delle domande dirette a far valere il rispetto dei limiti legali della proprietà, trova una delle sue prime compiute espressioni nella sentenza di questa Corte 05/05/1960, n. 1029, alle cui tesi si sono, in seguito, acriticamente adeguate, con varianti di scarso rilievo, nonostante le opinioni contrarie formulate al riguardo dalla maggioranza della dottrina, altre pronunzie (e pluribus, Cass. 18/02/1963, n. 392, 29/07/1963 n. 2141, 05/10/1963 n. 2260, 11/06/1965 n. 1185, 31/01/1969 n. 290, 22/04/1980 n. 2592).
Il richiamato indirizzo si basa su di une serie di considerazioni che, se pure non tutte suscettibili di puntuale censura, tuttavia, o perchè inesatte o perchè ininfluenti ai fini della soluzione del problema, non appaiono idonee e sufficienti a giustificare la conclusione cui è pervenuto.
Con l’iter argomentativo principale, si muove dalla premessa che le ipotesi di trascrizione, in quanto normativamente predeterminate, sono tassative; si rileva, poi, che le azioni intese a far valere le limitazioni legali al diritto di proprietà non si risolvono, neppure parzialmente, né in un’azione di revindica, né in una azione d’accertamento, così della proprietà come della sussistenza (confessoria servitutis) o della insussistenza (negatoria servitutis) di un diritto reale di godimento, id est non sono riconducibili ad alcuna delle ipotesi espressamente regolate dall’art. 2653 c.c., n. 1, in quanto, in particolare, i detti limiti non sono servitù né sono ad esse equiparabili, onde all’azione de qua non può essere riconosciuta natura di azione negatoria ex art. 949 c.c.; si conclude, quindi, con l’osservare che, in definitiva, non essendo espressamente prevista nella norma in esame la trascrizione, oltre che delle domande singolarmente menzionatevi, anche delle diverse domande intese a far valere una violazione dei limiti legali della proprietà, queste sarebbero insuscettibili di trascrizione, giacchè in nessun modo riconducibili alle ipotesi espressamente previste ed in ispecie all’azione negatoria.
È quest’ultima considerazione, in particolare, che non è esatta e che, pertanto, inficia di per sè la validità dell’intero ragionamento, sebbene anche la prima considerazione, nella sua assolutezza, non resti immune da censura, come meglio in seguito.
La domanda con la quale l’attore fa valere, in proprio favore, i limiti che, ex lege, vincolano le facoltà ricomprese nell’altrui diritto di proprietà denunziandone la violazione, non tende, infatti, ad uno sterile accertamento del regime vincolistico e della sua violazione, bensì – attraverso la contestazione del fatto posto in essere dal convenuto come illegittimamente impositivo sul fondo dell’attore d’un peso non consentito in ragione della sussistenza dei limiti legali e la consequenziale richiesta di condanna all’eliminazione di quanto realizzato o d’inibitoria di quanto si vorrebbe realizzare in violazione degli stessi – tende a salvaguardare il diritto di proprietà dell’attore dalla costituzione d’una servitù avente ad oggetto una situazione di fatto realizzata in contrasto con altra tutelata dal limite violato e, quindi, lesiva del corrispondente diritto al mantenimento della detta situazione qua ante ed al suo ripristino, onde va qualificata come negatoria servitutis e rientra, pertanto, nella previsione dell’art. 2653 c.c., n. 1.
In altri termini, quando il proprietario di un immobile denuncia la violazione di un limite legale da parte del vicino, mira non già a far accertare il diritto di proprietà o l’esistenza della tutela vincolistica di essa ma a far valere l’inesistenza di iura in re a carico della detta proprietà suscettibili di dar luogo a una servitù che esoneri il convenuto dal rispetto di tale limite legale, cioè esercita una negatoria servitutis (cfr. già Cass. 07/07/1979 n. 3902).
In tale prospettiva, l’automaticità dei limiti legali e la loro reciprocità, con la possibilità da parte di qualsiasi terzo di conoscerli indipendentemente da uno specifico rapporto negoziale, è del tutto irrilevante, in quanto, come già sopra evidenziato, l’oggetto del giudizio non è l’astratta esistenza del limite legale che si assume violato, ma l’inesistenza di una servitù che tale mancato rispetto giustifichi.
D’altra parte, la generale conoscibilità dei limiti legali non può essere utilmente invocata in danno del terzo che abbia acquistato facendo affidamento, in buona fede, sulla conformità a diritto, in ispecie alle normative edilizie dettate dai regolamenti locali, della situazione di fatto ove la costituzione della stessa non sia stata inibita dalla competente P.A., preposta al controllo del territorio in materia urbanistica ed edilizia ed, a maggior ragione, ove da quest’ultima sia stata consentita con il rilascio d’una concessione, attesa la presunzione di legittimità che assiste l’attività amministrativa, nel senso della conformità alla normativa generale e/o locale in riferimento alla materia ricompresa nell’attribuzione di funzioni dell’organo agente.
Per altro verso, la giurisprudenza tradizionale sostiene anche che, stante l’automaticità del limite legale e del suo sorgere e considerata anche la reciprocità delle limitazioni stesse, attinenti alle singole situazioni in cui reciprocamente si trovano le proprietà immobiliari, sarebbe completamente inutile fissare il momento della produzione degli effetti della domanda e del giudizio in corso nei confronti del successore a titolo particolare del convenuto, non risultando necessario fissare il rapporto tra l’acquisto da parte di quest’ultimo e la domanda giudiziale proposta dall’attore, in quanto in questo campo, in realtà, acquisto nel vero senso della parola del diritto contestato non c’è, dacchè non si acquista il diritto a far valere il limite legale, come non si acquista il limite stesso, che discende dalla situazione dei fondi e dalla normativa in materia, onde appare sufficiente la disposizione dell’art. 111 c.p.c., u.c..
Al riguardo è stato rilevato, in contrario, come detta tesi si basi su di una funzione sostanziale della trascrizione delle domande previste dall’art. 2653 c.c., n. 1, mentre, secondo la stessa giurisprudenza di questa S.C., gli effetti delle trascrizioni ex art. 1653 c.c., n. 1, hanno natura meramente processuale, giacchè, in difformità dal disposto generale dell’art. 111 c.p.c., comma 4, prima ipotesi, per il quale la successione a titolo particolare nel diritto controverso determina l’efficacia nei confronti dell’avente causa della sentenza emessa in favore o contro il suo dante causa, ed in attuazione della deroga espressamente prevista dallo stesso art. 111 c.p.c., comma 4, seconda ipotesi, la sentenza sulla domanda trascritta è efficace nei confronti del successore a titolo particolare solo ove questi abbia trascritto il proprio acquisto successivamente alla trascrizione della domanda e viceversa; ond’è che l’effetto d’utile opponibilità della sentenza che accolga la domanda anche nei confronti dell’avente causa dal convenuto, il quale abbia trascritto il proprio titolo d’acquisto, si verifica solo ove la trascrizione della domanda medesima sia stata non solo a sua volta trascritta ma anche trascritta antecedentemente alla trascrizione del contrapposto titolo del terzo acquirente.
Si argomenta ancora, nella sentenza 04/04/1978 n. 1523, non potersi sostenere, in favore di chi costruisce non rispettando le distanze legali, l’acquisto, con il decorso del tempo necessario ad usucapire, del diritto di servitù attiva a carico del fondo del vicino – con la conseguenza che l’azione promossa da quest’ultimo affinchè sia rispettata la distanza legale debba essere considerata come diretta ad impedire la costituzione di tale servitù, id est, in definitiva, a negare l’esistenza di essa – dacchè un atto processuale teso ad impedire la produzione di un effetto infierì non potrebbe essere identificato con un atto processuale diretto a negare un effetto da altri vantato come esistente; riprendendo, poi, le mosse dalla differenza tra limiti legali e servitù, vi si ribadisce che, non affermandosi con l’azione per il rispetto dei limiti legali un proprio diritto reale sull’immobile altrui né negandosi un diritto reale altrui sull’immobile proprio, la domanda, in quanto non intesa all’accertamento positivo o negativo d’un diritto reale di godimento, non sarebbe equiparabile alla nega-toria, considerato anche che la libertà del fondo dell’ attore da vincoli correlati al fatto del convenuto non è materia né d’azione né d’eccezione, ma rappresenta il presupposto della domanda.
Ora, la prima delle riportate argomentazioni non tiene, evidentemente, conto del fatto, già sopra sottolineato, che l’azione diretta al rispetto di un limite legale della proprietà tende, in effetti, non alla semplice affermazione dell’esistenza d’un limite legale violato dal proprietario del fondo finitimo a quello dell’attore, bensì ad impedire, al pari dell’actio negatoria tipica, non solo l’acquisto, con il decorso del tempo necessario per usucapire, ma anche l’esercizio attuale d’una servitù di contenuto contrario al limite legale stesso.
L’allegazione, poi, della libertà del fondo dell’attore da vincoli correlati al fatto posto in essere dal convenuto in funzione dell’azionata contestazione della legittimità del fatto medesimo non rappresenta affatto un semplice presupposto della domanda, bensì l’oggetto stesso di essa, la cui causa petendi è la violazione d’una situazione preesistente tutelata dalla normativa vincolistica ed il cui petitum immediato è la pronunzia richiesta, id est l’ordine di restituzione in pristino o l’inibitoria, mentre il petitum mediato, che costituisce l’oggetto essenziale della domanda, è, appunto, la salvaguardia del diritto di proprietà dell’attore dalla costituzione d’una servitù in favore del convenuto e ciò per mezzo d’un’azione che ha, evidentemente, tutte le caratteristiche dell’actio negatoria.
Ed è precisamente la sussumibilità dell’azione de qua nel paradigma dell’actio negatoria ad inficiare l’idoneità persuasiva della seconda delle riportate argomentazioni, con la quale, a ben vedere, non s’intende negare la trascrittibilità ex art. 2653 c.c., n. 1, della stessa actio negatoria – che viene, anzi, implicitamente affermata, così come risulta essere già data per acquisita da numerose decisioni in materia (Cass. 28/06/1960 n. 1693, 22/07/1963 n. 2033, 06/04/1966 n. 918, 11/10/1977 n. 4327, 04/04/1978 n. 1523 riprese da Cass. 10/01/1994 n. 213), compresa quella (Cass. 05/05/1960 n. 1029 in motivazione) precedentemente esaminata, e che non sembra più allo stato revocabile in dubbio – ma l’estensibilità della norma anche all’ipotesi in esame in quanto nella stessa non espressamente prevista.
Tesi non condivisibile (e non condivisa da un’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale: e pluribus, Cass. 01/03/2001 n. 2998, 26/01/2000 n. 867, 26/01/2000 n. 864, 14/06/1999 n. 5850, 18/12/1997 n. 12810, 14/12/1992 n. 13186, 27/05/1987 n. 4737, 06/05/1987 n. 4196), ove si ponga mente che, per quanto sopra evidenziato, all’azione intesa ad ottenere il rispetto dei limiti legali va riconosciuta natura di actio negatoria e che, sebbene anche questa non sia espressamente prevista dalla norma, nella quale è fatto riferimento al solo accertamento positivo, id est all’actio confessoria, non di meno, come pure si è evidenziato, non risulta essere più in discussione che anche ad essa debba trovare applicazione la disciplina dell’art. 2653 c.c., n. 1.
Sebbene, infatti, non possa porsi in contestazione l’esigenza di rispettare il dettato dell’art. 12 preleggi, che, nell’imporre una gradualità d’utilizzazione degli strumenti ermeneutici, pone al primo posto quello letterale, integrato da quello razionale riferito alla singola norma, va, tuttavia, anche considerato che la stessa disposizione consente, nell’ipotesi di lacuna, il ricorso ai criteri della similitudine e dell’analogia, ai quali segue quello sistematico, per il quale l’interpretazione della singola disposizione va effettuata in relazione al complesso delle disposizioni in materia, poiché incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius propostita, iudicare vel respondere (Celso: D. 1, 3, 24).
Ora, la ratio della normativa nella materia che ne occupa va ravvisata nell’interesse del terzo avente causa a titolo particolare ad esser posto in grado, prima dell’acquisto del diritto di proprietà o d’un diritto reale di godimento su di un immobile, d’aver cognizione della contestazione sub iudice del diritto del proprio dante causa, ciò non meno che nell’interesse dell’attore che quel diritto abbia contestato in sede giudiziaria ad esser posto in grado d’opporre anche al terzo avente causa, resosi acquirente nelle more del giudizio, l’esito a lui favorevole della controversia promossa nei confronti del dante causa.
Ed è in funzione di tale finalità che il legislatore, nel formulare la disposizione dell’art. 111 c.p.c., comma 4, per la quale la sentenza pronunziata contro l’alienante spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare, ha fatto salve le norme sulla trascrizione, introducendo una deroga al principio generale che, in quanto tale, deve considerarsi tassativa, id est limitata ai soli casi espressamente disciplinati dalla normativa sulla trascrizione, ed ostativa, quindi, ad interpretazioni intese ad ampliare l’ambito d’applicazione della normativa stessa per il principio inclusio unius exclusio alterius; non di meno, non ne resta esclusa l’interpretazione estensiva, o logica per similitudine, secondo il principio ubi eadem ratio ibi eadem dispositio, laddove il caso previsto e quello non previsto presentino caratteri comuni e questi siano specificamente quelli che hanno determinato la disciplina del caso previsto.
Nella specie, l’espressa previsione, nell’art. 2653 c.c., n. 1, della deroga in ordine alla confessoria servitutis comporta l’applicazione della medesima deroga in favore anche della negatoria servitutis e delle azioni a questa equiparabili, come l’azione intesa a far valere i limiti legali, e ciò per l’evidente identità degli elementi giuridicamente rilevanti nell’un caso come negli altri.
Entrambe le azioni de quibus vanno, infatti, ricomprese tra le domande d’accertamento della proprietà, anch’esse espressamente menzionate nell’art. 2653 c.c., n. 1, dacchè, sebbene il risultato cui tendono sia l’accertamento negativo dell’esistenza di diritti reali di godimento sulla cosa di proprietà dell’attore, mentre la norma risulta testualmente riferirsi alle sole domande d’accertamento positivo, trattasi, tuttavia, di due a-spetti della medesima situazione, in quanto, come evidenziato da autorevole dottrina, anche l’accertamento dell’inesistenza di diritti reali altrui si risolve necessariamente in un accertamento della pienezza del diritto di proprietà.
In considerazione delle ragioni sin ora esposte, si deve, dunque, concludere che le domande intese a far valere le violazioni ai limiti legali della proprietà non solo sono suscettibili di trascrizione ex art. 2653 c.c., n. 1, ma, anzi, devono essere trascritte perchè l’attore possa utilmente opporre la sentenza favorevole ottenuta nei confronti del convenuto anche al terzo acquirente dal convenuto stesso con atto trascritto successivamente alla trascrizione della domanda; sebbene possa sembrare superfluo, va, comunque, precisato che la raggiunta conclusione non trova campo ove con la domanda sia stato chiesto non la riduzione in pristino ma esclusivamente il risarcimento del danno, id est sia stata sperimentata non un’azione reale ma un’azione personale.
Per altro verso, come correttamente ritenuto da Cass. 23/12/1994 n. 11124 ma già Cass. 28/06/1960 n. 1693, sulla scorta, d’altronde, della prevalente dottrina, la trascrittibilità della domanda intesa a far valere una violazione dei limiti legali della proprietà può essere ricondotta anche alla previsione dell’art. 2653 c.c., n. 5, per il quale devono essere trascritti gli atti e le domande intesi ad interrompere il corso dell’usucapione di beni immobili, specificando che l’effetto, riguardo agli acquirenti i quali abbiano trascritto l’atto d’acquisto, non si verifica se non dalla data di trascrizione dell’atto o della domanda.
Al riguardo, l’indirizzo giurisprudenziale tradizionale aveva escluso l’estensibilità della norma, non solo all’ipotesi che ne occupa, id est alla domanda intesa a far valere i limiti legali considerata come atto interruttivo dell’usucapione del diritto del convenuto a mantenere una situazione realizzata in loro violazione a carico della proprietà dell’attore, ma agli stessi atti interruttivi dell’usucapione dei diritti reali di godimento in genere, affermando che la trascrizione prevista e disciplinata con la disposizione in esame atterrebbe agli atti interruttivi dell’usucapione limitatamente al solo diritto di proprietà sui beni immobili; ciò sulla considerazione che non sarebbe stata desumibile dall’art. 813 c.c., un’assoluta identità di normativa tra proprietà e diritti reali di godimento, dacchè il legislatore, laddove aveva inteso stabilire un identico trattamento per gli acquirenti della proprietà di un immobile e per coloro che su di esso avessero acquistato soltanto diritti reali di godimento, lo aveva detto espressamente, come nell’art. 1158 c.c., comma 2 (Cass. 31/01/1969 n. 290; 04/04/1978 n. 1523; 22/04/1980 n. 2592).
In senso contrario si può, tuttavia, fondatamente osservare, in adesione alle richiamate sentenza e prevalente dottrina, come la riportata opinione non solo non adduca alcun argomento a giustificazione della ritenuta disparità di disciplina della trascrizione degli atti interruttivi a seconda che si riferiscano all’usucapione della proprietà piuttosto che ai diritti reali di godimento, ma neppure trovi conforto nello stesso tenore letterale della norma, il cui testo, se nella prima parte può indurre a ravvisare un richiamo alla sola usucapione della proprietà, nella seconda parte, per il suo intrinseco carattere integrativo della precedente e per la genericità nell’indicazione del genus dei diritti reali immobiliari, confermata dal significativo uso del plurale, non può rapportarsi se non all’usucapione anche dei diritti reali limitati; diversamente argomentando, tra l’altro, si dovrebbe concludere con il ravvisare un insanabile contrasto tra le due parti della norma.
D’altra parte, a fronte al principio generale posto dall’art. 813 c.c. – secondo il quale le disposizioni concernenti i beni immobili si applicano anche ai diritti reali che hanno per oggetto beni immobili e alle relative azioni “salvo che dalla legge risulti diversamente” – l’esclusione a determinati fini dell’equiparazione in tali termini operata dalla disposizione generale richiederebbe un’espressa previsione che, per contro, non si rinviene nella norma speciale in esame; in vero, il criterio sistematico vuole che, data una regola, le specificazioni diverse costituiscano eccezione e non assurgano esse stesse a regola, onde sono le norme che distinguono a certi effetti la proprietà dai diritti reali a costituire l’eccezione alla regola posta dall’art. 813 c.c. e non viceversa, quindi, laddove specifica menzione della distinzione non vi sia, è la regola generale dell’ equiparazione nella disciplina sostanziale e processuale tra diritto di proprietà ed altri diritti reali, posta dall’art. 813 c.c., a trovare applicazione.
Ne consegue anche che, posta la richiamata regola generale, l’espressa menzione, in alcune disposizioni, dei diritti reali limitati congiuntamente al diritto di proprietà (art. 1158 c.c., comma 2; art. 2653 c.c., n. 1) debba essere considerata come affermazione rafforzativa di tale principio e non come argomento per desumerne l’inapplicabilità nelle ipotesi in cui analoga espressa menzione manchi.
In conclusione, può affermarsi che le domande intese ad ottenere il rispetto dei limiti legali della proprietà, in quanto dirette ad interrompere l’usucapione d’un diritto di contenuto contrario ai limiti violati, può essere trascritta ai sensi dell’art. 2653 c.c., n. 5.
A valere, in fine, per entrambe le ipotesi esaminate (art. 2653 c.c., nn. 3 e 5), la considerazione per cui la materia della trascrizione delle domande giudiziali – che già come disciplinata con il R.D. 16 marzo 1942, n. 262, era intesa, per comune opinione di giurisprudenza e dottrina, quale forma di pubblicità nell’interesse dei terzi – non può ad oggi non essere interpretata anche alla luce degli “inderogabili doveri di solidarietà” per i quali, riconosciuti dall’art. 2 Cost., tra i principi regolatori fondamentali delle relazioni sociali, si pone a carico di ciascuna delle parti di qualsivoglia rapporto un dovere d’autoresponsabilità, indipendente dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o da espresse previsioni normative, imponendole d’agire in guisa da preservare gli interessi dell’altra ed, a maggior ragione, d’astenersi dall’ostacolarne senza giustificato motivo l’esercizio dei diritti.
Per il che, l’esigenza di contemperare gli opposti interessi dell’attore e dell’avente causa dal convenuto non può, comunque, prescindere dalla pari esigenza d’interpretare l’esaminata normativa nel senso di ritenere doverosa e, quindi, non solo consentita ma necessaria, la trascrizione della domanda intesa a far valere, con pretesa d’inibitoria e riduzione in pristino, una violazione dei limiti legali della proprietà, ciò al fine di preservare il terzo avente causa dal convenuto dal rischio d’acquistare inconsapevolmente un diritto suscettibile di menomazione nell’ipotesi d’accoglimento della domanda stessa.
In vero, se è principio pacifico che una determinata interpretazione debba essere pretermessa ove possa suscitare dubbi di costituzionalità della norma, devesi ritenere che l’esigenza di tutela del diritto del proprietario leso dalla violazione dei limiti legali senza onere alcuno di trascrizione della domanda non possa essere legittimamente riconosciuta in quanto implica una lesione ingiustificata dell’analoga esigenza di tutela del diritto dell’aspirante avente causa dal convenuto d’essere reso edotto circa la pendenza d’un giudizio al cui esito potrebbe risultare menomata, od anche totalmente elisa, l’ampiezza del diritto che è in procinto d’acquistare dal convenuto medesimo.
Rapportate le sopra svolte considerazioni al caso concreto sottoposto al vaglio di queste SS.UU., devesi, dunque, concludere che, non essendo stata trascritta la domanda proposta dal P. nei confronti dello I., la sentenza resa, con la quale è stata accolta la domanda dell’attore e condannato il convenuto alla parziale demolizione delle opere realizzate in violazione delle distanze legali, non è opponibile agli aventi causa dal convenuto stesso.
Ne consegue la cassazione dell’impugnata sentenza senza rinvio, limitatamente alla questione trattata che, ex art. 384 c.p.c., comma 1, seconda ipotesi, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, viene decisa nel merito nei termini di cui sopra.
Sussistono evidenti giusti motivi per compensare tra le odierne parti le spese d’entrambe le fasi del giudizio.
P.Q.M
LA CORTE Accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa senza rinvio in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara inopponibile ai ricorrenti la sentenza resa tra il P. e lo I. compensando tra le parti odierne le spese d’entrambe le fasi del giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 novembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2006